Anamnesi del jazz ed esperienze portoghesi: ancora su Nicola Guazzaloca

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In uno dei miei frequenti pensieri trasversali mi soffermavo su quanto era rimasto del pianismo free jazz in Italia; un terreno che scotta per i musicisti, sul quale è pericoloso svuotare tutto il proprio interesse artistico. Spesso non c’è solo la paura di stancare il pubblico, ma ci sono motivazioni di carattere personale, trovare un necessario equilibrio con forze musicali differenti. Ci sono parecchi esempi di come in Italia molti dei pianisti free abbiano preferito un eclettismo stilistico, non sviluppando una propria personalità completa esclusivamente sulla libera improvvisazione; qualcosa di idiomatico, che sia jazz o di natura classica, è rientrato prepotentemente dalla finestra. Se avete la pazienza di andare a rivedere quanto scrissi nel 2012 nell’embrionale rubrica di Poche note sul jazz italiano, troverete che ne individuavo molti di pianisti free, ma con cognizione di causa debbo dire che è sconsolante la situazione odierna: alcuni sono diventati latitanti, altri sembrano aver deviato parecchio le loro istanze free diversificando le fonti di provenienza, pochissimi sono coloro che restano fedeli ad un modello puro senza idioma o con un suo contenuto minimo. Nel mio immaginario free significava non solo libertà d’azione, ma anche competenza, possibilità estreme sugli strumenti, sviluppo. A tal fine resta ancora molto coerente l’espressione musicale di Nicola Guazzaloca. Su queste pagine ho rimarcato il prezioso apporto del pianista di Bologna, con articoli dedicati e molte recensioni (vi metto tutti i links in cui ho parlato della sua musica alla fine dell’articolo) e soprattutto l’idea che ho maturato è che Nicola sia un portavoce di quelle che una volta venivano chiamate “scuole” del pensiero musicale: basterebbe rifarsi a quanto è venuto fuori da Bologna nei primi anni di questo nuovo secolo, con concerti, esibizioni pluri-congetturate e registrazioni sperimentali che hanno visto la luce in Setola di Maiale, la benemerita etichetta discografica di Stefano Giust, uno dei primi che ha raccolto e compreso la ventata di freschezza e competenza che la musica improvvisata libera stava attraversando anche in Italia.
Gli ultimi episodi discografici confermano l’impostazione di un pianista che ha ingabbiato la “libertà” musicale secondo un flusso ben caratterizzato: essa agisce come una lente di ingradimento istintiva che, anche quando fagocita il passato, resta fedele ad una matura ricollocazione degli elementi musicali. Prendete il quintetto Tell No Lies, condiviso con Edoardo Marraffa, Gabriele di Giulio, Luca Bernard e Andrea Grillini, e provate a sentire con attenzione quali sono le soluzioni adottate: di fronte ad un progetto che vuole stare in qualche modo nel jazz, si fa fatica a trovare assoli o condensazioni sonore che siano perfettamente riferibili ai motori idiomatici così come sono stati conosciuti. L’idea è di costruire validi aggiornamenti: sia nel tema che nello sviluppo c’è la volontà di creare sensazione; in Anamnesi c’è una bellissima e ben precisa melodia che riporta a Shorter, ad un modalismo di transizione e al modo con cui McCoy Tyner trattava le pause delle sue eruzioni, ma c’è anche la potenza, la centralità e il cinismo di Guazzaloca. In Tell no lies, invero, c’è uno scopo di gruppo calibratissimo:
a) nei fiati, con Marraffa e Di Giulio validissimi al soprano e tenore rispettivamente, che impongono un free-bop di alto livello, quando poi sfavillano nelle melodie incrociate di Reflexa e nel clima quasi inibitorio di Kronstadt;
b) nella sezione ritmica tenuta da Bernard e Grillini, che si scompone pochissimo, transige lasciando intravedere chissà quali sviluppi nel caso fosse lasciata libera.
Quelli di Guazzaloca, spesso, sono scariche, lampi veloci, grappolature free che vogliono contrastare qualsiasi formazione di climi jazz parassitari.

 

Nella formazione dei PUI4, Guazzaloca si confronta con alcuni degli improvvisatori portoghesi più bravi di sempre (Carlos Zingaro, Joao Pedro Viegas + Alvaro Rosso). Il concetto che riempie A pearl in dirty hands è quello di mettersi in connessione con un mini gruppo da camera. Non c’è la volontà di ottenere simulazioni, ma quello di condividere un umore, molto speciale, subliminalmente trasversale, che ha qualcosa di surreale e fantastico. Il jazz è sepolto dentro le strutture dell’improvvisazione, entro le strutture atonali che vengono sviluppate e in questo mascheramento Guazzaloca è bravissimo. Sono costruzioni paradossali del senso, simili a quelle che Deleuze interpretò nelle opere di Lewis Carroll nella sua Logica del Senso: il gioco delle parole insolite, pieni di codici segreti ed immagini al confine, del suo strano divenire, potrebbe avere un gancio nelle sensazioni di A pearl in dirty hands. E’ un lavoro esemplare quello fatto dai tre portoghesi, pieno com’è di indicazioni, tecniche estensive prodromiche di situazioni paradossali, spesso esercitate in connubio: ambienti torbidi, acusticamente intolleranti, che si aprono a movimenti della libera creazione. E allora sembra che qualcuno stia strisciando (il violino di Soon it’s late), abbia perso fiato (il clarinetto di By the gale), stia presentando una danza (l’intro di By the dusk), stia spurgando una marmitta (il contrabbasso di Down the cave).
In Portogallo Guazzaloca ha effettuato quest’anno anche concerti con Edoardo Marraffa: due di essi sono stati registrati in Em Portugal!, quelli alla Livraria ler Devagar di Lisbona e al MIA nell’Encontro de Musica Improvisada de Atouguia da Baleia (maggio 2018). Si tratta di una nuova fase di Les Ravageurs, l’improvvisazione dedicata a Fabre e ai suoi insetti, promulgata in due versioni aventi un grado di pathos leggermente differente: quella alla Livraria ler Devagar ha una parte che lascia senza respiro, con Guazzaloca che si inventa continuamente scale e scorribande sulla tastiera, contrappunto perfetto per il sax incendiario e dolente di Marraffa, mentre un’altra conosce distensione, mistero, con Guazzaloca che si introfula a suo modo negli interni del piano. Tale distensione non si può stabilire nell’esibizione di Atouguia da Baleia, poichè essa è spasmodica, senza cali di tensione, anche se soffre di una registrazione un pò sotto le dinamicità consuete.
Se inequivocabilmente si è sempre considerato Marraffa essere il partner storico di Guazzaloca (questo si rinviene dall’ampia casistica di concerti e registrazioni relative), mi chiedo se esso sia l’unico possibile. Così come succedeva in Gluck Auf (l’unico cd registrato dai due anteriormente all’esperienza di Les Ravageurs), le problematiche riflesse sono sempre figlie di una percezione del pensiero in fase di sconvolgimento: in Gluck Auf si intercettava il mondo dei minatori, delle loro ribellioni e delle loro morti, così come in Les Ravageurs il mondo pulsante, turbinoso e pericoloso degli insetti. E’ dunque una somma algebrica quella derivante dalla carica emotiva dei suoni.
Em Portugal! mi rimane caro anche per un altro motivo: nel booklet interno Guazzaloca è fotografato da Pat Lugo, durante l’esibizione svoltasi a Noci per il primo Clockstop festival, mentre pizzica le corde all’interno del piano: sullo sfondo si vede la mia sagoma che attenta segue il concerto.

 

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.