
Da molti anni l’anima jazz dell’appassionato si divide tra efficaci riproposizioni del passato e voglia di accogliere nuove esperienze che siano rappresentative del nuovo corso che il jazz ha intrapreso con l’avvento del free. Sono da sempre convinto che, anche quando esista questo dilemma, bisogna comunque scavare nel personaggio e nel suo stile per cercare di capire se le riproposizioni del passato sono meritevoli di essere aggiornate e di capire quanta sostanza e originalità può scaturire dalla sua personalità artistica. Si parla del cosiddetto mainstream jazz, che, sebbene sia usato in modi e significati differenti dagli operatori, in realtà vuole prendere in considerazione tutta quella realtà ampia che il jazz ha cominciato ad intraprendere all’inizio degli anni novanta, fornendo l’equivalente di un movimento new-romantic del settore classico; molti musicisti hanno cercato tramite il mainstream un’attualizzazione del be-bop e in molti casi dello swing di inizio secolo, qualcosa per reintrodurlo nei tempi moderni, distillando nel suono anche elementi della contemporaneità jazzistica. Il termine, in verità, fu usato dal critico di danza Stanley già nel
1950 per sottolineare la musica del trombettista Buck Clayton, ma la pienezza del significato, attribuito dalla critica al genere, si imporrà solo con l’interesse mostrato da una parte dei musicisti di New York di volgere lo sguardo verso una nuova considerazione delle capacità artistico/tecniche profuse negli strumenti di riferimento. Molti critici più rivolti al lato free del jazz ritengono che non si possa parlare di vera e propria “arte” in questi casi, tuttavia questo concetto è molto più complesso di quanto sembra e dargli un significato univoco è anche fuorviante: certo, da una parte può annoiare, dall’altra la realtà parla di musicisti che sono dei veri e propri campioni dello strumento da loro suonato (vincitori di premi “tecnici”, guidati da giurie internazionali), memori delle lezioni che vanno da Louis Armstrong fino a John Coltrane, musicisti che però non sono degli innovatori, almeno nel senso stretto della parola, a cui gli si può chiedere solo di riaggiornare il catalogo storico del jazz. Nonostante tutte le difficoltà di valutazione, dunque, l’analisi delle qualità espressive va fatta caso per caso.

La serata passata al Barletta Jazz Festival con il quintetto di Dave Holland fa molto pensare a quanto detto: nonostante Holland abbia profuso molta eterogeneità nella sua musica (free e sperimentazione non sono mancati), qui il mainstream non manca, con l’accompagnamento di musicisti di rango, oramai laboratori di questa tendenza che oramai dura da più di venti anni. Il trombonista Robin Eubanks e soprattutto il sassofonista Chris Potter dimostrano come si possa enuclare valore anche nella semplicità dei suoni. Potter, in particolare, è probabilmente la punta di diamante di un movimento americano nato al sassofono con gli interventi di Joshua Redman, David Binney, Branford Marsalis, etc., (così come al piano era nato con i contributi del primo Brad Mehldau, di Kevin Hays, o alla chitarra con Kurt Rosenwinkel, e così via). Per ciò che concerne Potter, come descrisse il giornalista di AllAboutJazz John Kelman in una sua recensione, l’artista americano possiede una …”pura energia viscerale bilanciata con una qualità accademica….“, circostanza che lascia spazio spesso ad una eccitante improvvisazione che, pur basandosi sui modelli canonici del jazz, ha modo di esplicarsi con caratteristiche personali, fornendo un suono frizzante, di alta competenza (con parecchi sprazzi nelle libertà free). Quello che un ascoltatore può solo rimproverargli è l’assenza di “innovazione”, per il resto, si capisce che ci si trova di fronte al meglio di quello che il mondo del jazz può offrire tecnicamente nella prospettiva di un jazzista che non ha voglia di addentrarsi in melodie distorte o congiunzioni sperimentali. Non ho avuto modo di poter scambiare qualche parola, ma mi è rimasta una bella sensazione nell’aver conosciuto in carne ed ossa musicisti importanti come loro.

La discografia solista di Potter ha probabilmente vissuto i suoi momenti migliori negli episodi di Concentric Circles del ’94, nella collaborazione con Mehldau di Moving In nel ’96, in cui cristallino è il talento tecnico del sassofonista di New York e, almeno fino Gratitude, Potter non lascia la formula intrapresa, jazz calcolato su temi e improvvisazioni convincenti; poi con Traveling Mercies del 2002, Potter inserisce nella collaudata formula linee di synth, effetti di elettronica, rispondendo ad una esigenza che era diffusa anche negli altri musicisti, cambiando ancora registro con Underground e con il quasi funky di Ultrahang del 2009, che in verità ne mortifica le capacità espressive, avvicinandolo al pop-jazz degli Steely Dan, gruppo a cui aveva dato già il suo contributo in Alive in America. Notevoli anche le registrazioni dal vivo al Village Vanguard per l’etichetta Sunnyside. Inoltre dev’essere considerato essenziale per tutte le registrazioni recenti di Holland e di quelle di tanti blasonati musicisti jazz che lo hanno invitato a suonare nei loro dischi (tra cui Wayne Shorter, Enrico Pieranunzi, Paul Motian, etc.).