Il potere dello shakuhachi

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Lo shakuhachi, il flauto diritto giapponese, ha da tempo interessato etnomusicologi, musicisti e compositori nel rivelare alcuni stati di benessere mistico e nell’esplicitare tutta una tradizione religiosa implicitamente condensata nei suoni: il suonarlo non sembra essere una cosa per tutti, c’è qualcosa che va aldilà della semplice partitura; probabilmente è racchiuso un modo di pensare del mondo molto personale e votato alla comprensione di fenomeni religiosi antichi provenienti dal buddismo, che anche il Giappone moderno ha avuto difficoltà ad accettare; dopo l’operazione di scambio delle conoscenze teorico/musicali tra la cultura giapponese e quella occidentale, fu Takemitsu che approfondì le pregnanti caratteristiche di questo strumento con l’obiettivo di traslare nella composizione lo spazio sonico ricavato dalla tradizione, costituendo il più oggettivo dei precedenti storici per quello che riguarda le interazioni con la modernità classica: Takemitsu costrinse le generazioni di compositori successive a porsi nella stessa ottica in contesti diversi. Si pensi all’ondata dell’elettronica e alle splendide relazioni portate avanti da compositori come Richard Teitelbaum (“Blends”). Ma anche nel jazz alcuni perspicaci musicisti ne avevano carpito il potere già negli anni sessanta grazie ad operazioni di avvicinamento musicale, favorite dalla nuova prospettiva dettata dai tempi di un connubio con i suoni trascendentali dell’Oriente: polistrumentisti come Eric Dolphy, Steve Lacy o antesignani  new-age come Tony Scott (“Music for Zen meditation”) nella loro filosofia di approccio ai suoni dello shakuhachi ne intravedevano nuove prospettive; questo processo avveniva quasi mai direttamente, poichè realizzato tramite la gamma dei sax e dei clarinetti o tramite l’intervento degli esponenti più rappresentativi (i cosiddetti “masters” dello shakuhachi) che ne condividevano le esplorazioni; più recentemente l’interessamento è stata una necessità per artisti come il norvegese Arve Henriksen o come lo statunitense Ned Rothenberg, che ha dedicato addirittura un disco completo all’argomento. Ma è indubbio che il raggio d’azione era ampio e spesso veniva convogliato verso temi new age, purtroppo non sempre con risultati tendenti alla voglia di creare una rappresentazione d’arte musicale che non fosse semplice relax.
Vorrei segnalarvi due recenti pubblicazioni discografiche che, nonostante appartengano a segmenti diversi di mercato, sembrano condividere gli stessi scopi, specie se si guardano le copertine. Nell’àmbito classico il compositore Robert Carl (1954) è già stato apprezzato per la sua passione per il crossover tra cultura asiatica ed occidentale: i suoi viaggi in Giappone hanno avuto il merito di fare interrogare molti compositori sul ruolo della musica giapponese e su quello dello shakuhachi, ma anche quello di finalizzare una spasmodica ricerca dell’identità della tradizione udita anche grazie al flauto in questione. Nelle note del suo ultimo “From Japan” per la New World Records, Carl sottolinea che ” …in Giappone, c’è un’enfasi maggiore sulla perfezione dei singoli suoni e una maggiore comprensione sul ruolo del silenzio attraverso intelaiature e suoni riflessi….i compositori giapponesi tendono a concepire la polifonia come una derivazione dell’eterofonia, ossia c’è una linea melodica che genera armonia e contrappunto….all’interno di strutture ben delimitate, i singoli gesti musicali sono azionati da un diverso passaggio  temporale, quello che potrebbe ricondursi a modelli fisiologici (come ad esempio il battito del cuore o il respiro) o agli indicatori psicologici del tempo (come ad esempio il tasso di cambiamento dei pensieri o stati d’animo)…Il mio obiettivo,” Carl spiega, “è quello di fornire all’ascoltatore un senso di ampiezza, una sorta di ‘apertura’ dell’orecchio e dello spirito che suggerisce un luogo dove si può respirare più profondamente, percepire uno spazio esteso dell’ascolto, per risuonare in sintonia con ciò che si ascolta “….(mia traduzione).
Uno degli assoluti masters dello shakuhachi in terra d’Oriente è Hozan Yamamoto (per la cui statura artistica ho già speso qualche parola nel posts dedicato all’improvvisazione jazz in Giappone); negli ultimi progetti di Hozan c’è la collaborazione con un gruppo di musicisti nipponici che incrociano la splendida capacità sonica del suo strumento: si parla nello specifico dei due chitarristi Hideshi Takatani e Masa Oya (che formano autonomamente i G2Us) e della pianista Mami Ishizuka. “Daiginjo+2” contiene un repertorio che è nel contempo accessibile e niente affatto scontato: ha i caratteri della tradizione e con molta discrezione si avventura nel jazz quasi a difesa dei propri istinti. Sono passaggi musicali essenziali, diretti, che non richiedono virtuosismo perchè incentrati sui suoni: ci si muove in un brand che tocca il jazz statunitense in maniera virtuale e sorvola la new age perchè di fatto gli contrappone un suono da oriental jams; a mente fredda ricordando l’esperienza live di questi artisti (con Yamamoto che quella sera non potè intervenire e fu sostituito), fatta ascoltandoli al recente JapzItaly (vedi post relativo) sicuramente ritengo che fu l’highlight della serata. 
 
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.