E’ questione oramai assodata quella della relativa mancanza di originalità delle proposte di un certo tipo di jazz imparentato con le proposte di Coltrane che, nell’esplorare quasi totalmente lo strumento del sassofono (per antonomasia lo strumento principe del jazz in senso tradizionale), aveva anche costruito uno stile riconoscibile e difficilmente scardinabile dalle generazioni successive di musicisti jazz; tutti si interrogano (da sempre e con poco profitto della discussione) se con Coltrane e Coleman il sax non abbia più avuti interpreti del valore assoluto di questi musicisti e dimenticano in maniera quasi ortodossa che molti sassofonisti hanno creato molte nuove vie di fuga dalla standardizzazione, basterebbe solo pensare a tutta la scuola di avanguardia partita da Braxton e Mitchell e arricchita da tanti sperimentatori che hanno cercato di spingere lo strumento oltre misura. Questi musicisti hanno cercato di trovare una dimensione nuova in nuove tecniche estese (si pensi a sassofonisti radicali come Christine Senhaoui) o in nuovi approcci dettati dall’era dell’elettronica e dai computers (con il rischio di trovarsi davanti qualcosa che non fosse più un sax). Il problema è che a ben vedere, per molti non si tratta più di jazz, almeno quello a cui ci si è abitutati per esperienza: la progressiva scomparsa della tonalità nel jazz ha avuto un effetto mortificante su un pubblico che non era mai stato abituato a concetti proiettati verso la dissonanza. Molto saggiamente, però, parte della critica ritiene che se è sempre più difficile trovare un valido denominatore stilistico che abbia proprietà unificatrici, è anche vero che la radicalità non è un mezzo costante per scacciare dalla mente quella specie di “morbo” infettivo del passato che si ripresenta in ascolti sbilanciati temporalmente; perciò è più opportuno concentrarsi sull’espressione: ecco quindi che accanto alla formazione (capace in molti casi di creare dei mostri di bravura artistica formale) bisognerebbe indagare sul messaggio interiore del musicista, sulla sua capacità di esternare attraverso lo strumento le sue emozioni e i suoi pensieri. Se chiaramente questa riflessione ci conduce comunque ad accettare una limitazione del nostro giudizio critico sui musicisti, dall’altra ci permette (nei casi migliori) di aggiornare perennemente un genere che altrimenti sarebbe abbandonato al volere di una casta auditiva che ne fornirebbe gli stimoli per esistere (con evidente divaricazione dal momento storico contingente). E’ un problema che oggi si ritrova in tutta la musica che combatte con una cronica incapacità di dimenticare i modelli del passato, soprattutto quando essi fossero stati eventi catalizzatori. Non solo, quando ne trova uno nuovo crea un nucleo di “fedelissimi” che si autoalimenta all’infinito. New York, città evoluta, ancora oggi paga un tributo a quel periodo del jazz in cui questi problemi non si ponevano: il bebop inteso nella sua forma moderna e spinta quasi al confine del free, ha ancora dei nuovi e validi rappresentanti. Nel 2001 l’ottimo quintetto di “Pharoah’s Children” presentava alla comunità musicale il sassofonista tenore J.D. Allen, che prendendo spunto da quella magnifica atmosfera da night clubs, prerogativa di mostri sacri come Sonny Rollins, Dexter Gordon e del Coltrane più “addomesticato”, ne ripropose una sua versione. L’operazione di recupero del sound Blue Note, oggi, viene adeguatamente coltivata in un trio di adeguati comprimari (Gregg August al cb, Rudy Royston alla bt): il suo sax è ben presente, le note vengono snocciolate in maniera magistrale, ossequia quella frequente affermazione per cui si dice “parla con il suo sax”; quello che gli si chiede (e che forse è solo nascosto) è solo una maggiore propensione a creare immagini con assoli veloci. L’intimità di registrazioni come “I am I am” e del recente “The matador and the bull” dimostrano come sia ancora opportuno ogni tanto fare un tuffo nel passato, non passando dai soliti standards sfruttati all’inverosimile, raccogliendo quella sfida che il jazz ha raccolto sulla sua strada, accettando come ultima spiaggia il movimento free degli anni sessanta.