La virtù principale di Gianni Lenoci sta nel sapere coniugare la migliore storia jazzistica con le protuberanze della musica contemporanea e quando si unisce nell’improvvisazione a musicisti particolarmente sensitivi all’approccio del jazz con la musica cosiddetta creativa, i risultati sono quasi sempre di gran livello; il suo laboratorio, direi permanente, resta comunque circoscritto alle realizzazioni di Hocus Pocus, il nome che Lenoci dà alle sue formazioni (da tre a tanti elementi) in cui più forte è l’attaccamento alle novità del jazz: in “Empty Chair” si unisce al miglior cornettista della scena di New York, Taylor Ho Bynum, che in un quintetto con gli abituè Gallo, Gadaleta e Mongelli, dà vita ad un nuovo capitolo di questa esperienza in cui è palese il peso dei due musicisti rispetto al quartetto, ma è ancora più palese il contrasto tra l’asprezza e l’insondabilità del suono di Bynum rispetto a quello trasognato e/o dubbioso di Lenoci; “Empty Chair” è un ulteriore riprova del valore artistico dei partecipanti, con frequenti assoli che mettono in evidenza le usuali caratteristiche dei musicisti, padroni incontrasti dei propri strumenti dove il valore aggiunto emerge anche grazie al ricorso di tecniche non convenzionali; oltre alla perfetta calibratura di “Spell” e della title-track, impostata su una trama monkiana, direi che è impossibile non menzionare “Turning Cucumbers” che costituisce probabilmente il brano di riferimento del gruppo, dove potrete ascoltare lo spettacolare assolo di Vittorio Gallo al sax e quelli dell’americano che alla cornetta chiama in causa l’egregio contrappunto stilistico che lo fa avvicinare alle sembianze di una vera e propria voce umana che parla attraverso i suoni, riempita di continui glissati, scattante, agile e nervosa al tempo stesso; si tratta quindi di una registrazione in cui i due principali attori del quintetto scambiano pensieri democratici alla ricerca di sonorità che siano perfettamente in linea con gli attuali sviluppi della creative music o trans-idiomatic music (per usare un termine di Braxton); ma al di là degli evidenti accomunamenti con le tecniche colte, viene messo in campo un profondo spirito jazzistico di base, che è ben udibile nell’alternanza delle splendide perfomances che lo compongono. Nonostante le varie critiche che investono il settore alle prese con una terza generazione di musicisti post-Braxton (T. H. Bynum è un suo discepolo diretto), l’unica vera critica che può essere mossa è solo sulla buon riuscita delle improvvisazioni, sulla verifica della validità artistica suscitata, in cui spesso le spigolosità utilizzate dai musicisti vengono miscelate con stravaganti respiri melodici; quello che “Empty chair” insegna è che aldilà della pragmaticità di pensiero sull’argomento, è possibile creare subdole immagini “acide” (senza particolari riferimenti a contenuti extra-musicali) che hanno lo stesso valore di quelle “idealizzate” basandosi solo su un fattore, quello dell’originalità e della preparazione dei musicisti.