Avanguardie vocali e fiati che cercano di analizzare il colore

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Frédéric Glorieux Interzone, bâtir, bâti (nuit)https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/
Molto alto il livello dell’ultima tornata di novità discografica della Leo Records. Per loro, qualche spunto di riflessione.
Con Interzones I, il duo Christoph-Franziska Baumann continua a proporre meraviglie. Una rarità nel campo improvvisativo, con loro c’è la possibilità di vivere delle esperienze musicali incredibili. Con alcuni acuti accorgimenti sono stati in grado di mettere su una formula che ha nelle preparazioni, nella tecnologia e soprattutto nell’impatto drammaturgico, delle armi fenomenali. Da una parte il pianismo penetrante di Christoph, mai valorizzato abbastanza, che crea catarsi continue (anche quando è preparato), dall’altra le invenzioni vocali di Franziska che forniscono uno spaccato tensivo di come debba costruirsi la giusta performance; si passa in rassegna molta della cultura canora occidentale (esibita al suo massimo) ma non manca lo spostamento occasionale in quella recepita dalle altre tradizioni (Fast and fury non disdegna il discorsivo di Trilok Gurtu, mentre in Coming into things si spende il canto difonico); l’improvvisazione è capace di nascondere preziose perle dietro ad un urlo, ad un bisbiglio, ad una pantomima verbale o ad una tipica caratterizzazione armonica; inoltre Franziska ha un vantaggio in più dall’aver fecondato alcune scoperte tecnologiche ed aver imparato a cantare con l’ausilio del braccio elettronico, un sensore che pesca, modifica, allunga e moltiplica (vedi qui un trailer che mostra sinteticamente l’approccio).
Lo scopo è quello di collegare zone musicali che sembrano dissociate: contemporanea, jazz, sincope teatrale, improvvisazione scendono in piazza tutte con lo stesso grado; in Interzones I si parla di Daily Entropy, Operatic Line o di Coming into things ma si percepisce la labilità dei confini che le etichette critiche assegnano anche solo per indurre alla comprensione di ciò che si ascolta. Alla fine si finisce super soddisfatti per l’interpretazione di My one and only love e per quella di Part I…, una rielaborazione del terzo modo di un signore di nome Messiaen.
Free radicals” è la registrazione di un concerto tenutosi ad Edinburgo nell’agosto del 2013 durante il festival Fringe, in uno spazio performativo ideato e costruito dal pianista Andrew Shorr. Il concerto fu pensato per accogliere una prova di arte sonora libera, che potesse dar modo ai musicisti di unirsi idealmente in un flusso espressivo totalizzante dettato dall’improvvisazione, senza dimenticare la possibilità di stringere su uno scopo simulatorio attraverso la musica; perciò l’unico problema era trovare i musicisti che potevano confortare quest’intento. Naturalmente, trattandosi di un festival creato da un esperto della materia elettronica (Peter Manning), era anche necessaria una parte in tal senso. La scelta è stata probabilmente presa in funzione di una possibile telepatia dei musicisti. e quindi Shorr, al cui fianco ha voluto Alistair MacDonald per il live electronics, ha contrapposto il duo estone Anto Pett (ulteriore piano) e Anne-Liis Poll (voce e alcuni strumenti etnici) più Mieko Kanno (violino acustico ed elettrico). Sembra scontato che la musica debba muoversi con molta energia e forse fare i salti mortali, ruotare o rigirare velocemente. Invece si impone per un “radicalizzazione” riflessiva, artistica, in cui non è secondaria la funzione della Poll, ove il suo canto trasversale e incomprensibile si incontra con le modificazioni elettroniche ed una ambigua sperimentazione: tracce d’opera, propulsioni canore sodomizzate e lasciti di Thema (Berio) convivono in Vanishing point, che fa pensare più al cosmico che al sentimentale. Ma molta parte della musica riprodotta in Free radicals vive su un latente sfondo psicologico, provocato dalle modalità con cui vengono toccati i pianoforti, impostato il live electronics e gli strumenti acusticamente adatti ad interagire in un certo modo nell’improvvisazione come kalimba, manzira, kazoo, sonagli e persino un African thumb piano. Un approccio futuristico in cui si sente di tutto (da Chopin a Berio passando per una selva africana riprodotta in miniatura o un fardello di quelli tipo Recherche musicale), che ha un proprio suono, nuovo e diverso dai clichés, e che già ha avuto modo di affermarsi nelle precedenti collaborazioni dei musicisti estoni coinvolti.
Tra le giovani cantanti tedesche particolarmente apprezzata dalla critica è Tamara Lukasheva (1988), ucraina che ha messo radici in Germania per coltivare i suoi progetti. In questo nuovo cd dal titolo Bleib ein mensch si ascolta in un trio voce-cello-viola atipico, tutto al femminile denominato Kusimanten: si tratta di deeLinde al violoncello e Marie Therese Hartel alla viola. Al riguardo è difficile riferirsi ad un trio jazzistico così come è impossibile parlare di chamber music convenzionale. L’attrito sta nel fatto che Lukasheva usa l’atonalità come aggancio comune a qualsiasi struttura musicale; distorce le proprietà di una cantante jazz, pop, tradizionale o classica non somigliando a nessuno. L’introduttiva Was die Baume sehen ad esempio, introduce già una stimolazione differente del canto, basata su impostazioni che durano pochissimo nell’economia del brano e che sorprendono per la loro capacità di sconfinare dal jazz (Kate Bush sembra a portata di mano in alcuni momenti). Ma l’innovazione si dovrebbe giocare su altri elementi: le simulazioni vocali che accompagnano le virate degli archi nonché gli arrangiamenti dei tradizionali ucraini o alpini (Marisja o Berdovichko) non smentiscono comunque prolungamenti canori effettuati con metodologia alla Annie Ross, sebbene gli stessi vivano di un’intelligente rielaborazione. Un furto fatto alla ColLegno?. Non proprio.
Jakatakatikataka lambisce i quartieri di una sedicente vocalista che mischia latinità e Gurtu, ma la vocalità calda e suadente si riaffaccia nel jazz di Unaffected. Pezzi come Vogel Fly o Ungstellans, che sembrano coniugare la Mitchell del periodo fusion con una melodia alla Prince, sembrano fuori posto per un disco che proviene dalla casa dell'”inquiring mind and passionate heart”. Poi arriva Ich hab genug a mostrare le tracce delle invenzioni di Lauren Newton, mentre la finale Gute nacht ripristina il sentimento classicista. Se si tirano le somme non si riesce a deformare il giudizio su Bleib ein Mensch, prodotto amabile dal punto di vista dell’ascolto, ma che può suscitare qualche riflessione dubbiosa sul grado di sperimentazione introdotta.
Intricata ma piena di fascino resta la progettualità del The Clarinet Trio, il progetto di Gebhard Ullmann assieme ai due clarinettisti Jurgen Kupke e Michael Thieke. Per la Leo R. il trio ha già registrato 4 cds in precedenza, partendo dal laboratorio di fine novanta con Oct. 1, 98. Stavolta di tratta di una registrazione dal vivo effettuata a Mosca nel 2013 presso il Theatre School of Dramatic Art, Tau Hall, che ospita il sassofonista Alexey Kruglov nell’organico, portandolo a quattro. “Live in Moscow” conferma la particolare ricerca timbrica incrociata, profusa dal trio in questi anni, condensata nell’accostamento di tonalità alte, basse e tradizionali di clarinetto al fine di creare una struttura polifonica, in cui ognuno improvvisa su una linea melodica astratta con momenti in cui però l’interesse è quello del raggiungimento di un suono coralmente indirizzato. Clarinetti spinti agli estremi di registro o all’opposto lunghe soste in linee melodiche jazzistiche abilmente confluite in una struttura libera e non priva del condizionamento compositivo di base. Kruglov si intromette perfettamente in questa tela, creando un quarto incomodo.
Sono viaggi sonori con una buona dose di sorprese estensive, ma ciò che più affascina è una capacità narrativa che si sviluppa allo stesso modo con cui si guarda un dipinto di Apollinary Vasnetsov (la copertina riporta il suo All Saints stone bridge. Moscow end of the XVII century). Fratello di Viktor, Apollinary ha fotografato splendidamente i paesaggi siberiani o degli Urali in maniera perfetta, dedicandosi con profitto anche a quelli ritraenti piazze o quartieri delle principali città russe in epoca medievale. A differenza di Viktor (che ha lavorato più sulla figurazione e sul mito), Apollinary è un esempio bellissimo di contrasti di colore, una variazione sostanziale del cupo romantico europeo, a cui ha lasciato la carica simbolista conferendone una nazionalistica; ma la cosa più importante è che i suoi dipinti ci conducono in una dimensione a più piani perfettamente leggibile (il paesaggio, l’agglomerato urbano, le azioni della gente): lo sforzo dei quattro musicisti tende proprio a creare sovrapposizioni avventurose, musica da camera in grado di raccontare e trasportare il senso su più prospettive e magari fornirne delle nuove (sentire dove si va a finire in Animalische stimmen, una simulazione boriosa di un pezzo scritto da Herman Keller, un altro dimenticato compositore e pianista improvvisatore della seconda generazione di improvvisatori tedesca); questa è improvvisazione validissima, in un contesto meschino che sta facendo di tutto per farla scomparire.
Gradito ritorno quello del sassofonista soprano Heath Watt. Per la Leo incise nel 2009 un cd con il batterista Dan Pell dal titolo Breathe if you can.
Il nuovo lavoro è svolto con il contrabbassista Blue Armstrong e si intitola Bright yellow with bass. Il suono di Breathe if you can è maturato, passando da scale progressive posizionate a registri opposti, ad un insistente lavoro estensivo su tutto lo strumento. Si tratta di congestioni sonore che cercano sempre l’armonico, lo sconfinamento al limite nel fischio e nello stridulo.
Gli arpeggi e la dinamica dell’assolo di questo sassofonista americano tra i più bravi al mondo nel campo del soprano, sembrano aver sorpassato la fase abulicamente rivolta a Lacy e Coltrane; questi sono più lontani, mentre il free jazz presentato, più celebrale e straziato, condivide una certa politica del soffio così come la portiamo in avanti da Dexter Gordon in poi. Con Armstrong si instaura un dialogo interessato, quasi forzato dalle circostanze, alla ricerca di obiettivi musicali non prevedibili ed affidati a spunti non convenzionali e senza preparazioni ulteriori che quelle di tappare la tastiera o le prese d’aria. Spingere nella colonna d’aria per ottenere una varietà di colori “brillanti” che si presentano con geni forti ma che vengono piuttosto raccontati con enfasi proporzionata. Qui si attua la filosofia del “chiedere”, si sibila senza far male, consci del fatto che non è semplice poter riprodurre in maniera pressoché costante suoni che possano sviluppare associazioni coloristiche luccicanti. Un prodotto d’arte che fa solo piacere che esista.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.