Gloria Coates: Emily Dickinson, il Piano Quintet e la sinfonia archeologica

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La letteratura americana dell’ottocento non ha percorso un sentiero diverso da quanto successo in musica: le infiltrazioni inglesi ed europee ebbero libero spazio per imporsi in uno stato giovane, in cerca di libertà ed emancipazione, come cercava di essere l’America di quegli anni. Romanticismo e classicismo si fecero avanti nella poesia e nelle pieghe generazionali della letteratura statunitense, talvolta facendo sorgere il vivo dubbio che essa non avesse sufficienti parametri per affermarsi come letteratura autonoma. In questo mancato privilegio, però, ci fu un’autrice che si distinse per la sua diversità, per un nuovo linguaggio poetico che utilizzava punteggiature e trattini senza rispetto per le regole, privilegiando la poesia breve, il senso dello sminuzzamento della frase poetica, e una evidente dissonanza dei significati primari (corte espressioni che sembrano salmi ed una serie di asimmetrie con tanto di metafora da scoprire). Emily Dickinson immaginava già un linguaggio aperto, che lasciasse trasparire nuove soluzioni espressive: ho parlato di libertà, sminuzzamento e dissonanza, tutti termini che lasciano intravedere un anticipo dell’autrice rispetto alla poesia del novecento, ma sono anche termini che potete applicare sic et simpliciter nella musica. Dunque, la Dickinson può considerarsi il primo poeta della modernità statunitense e il punto di riferimento letterario della sua modernità musicale. Non è un caso che per tutto il novecento ci sia stato un vero e proprio plebiscito di consensi, trasferito nella musica colta americana: compositori come Copland, Carter, Adams, Augusta Read Thomas, etc. (i più entusiasti nell’applicazione della poesia della Dickinson) ne ha fatto quasi un vessillo di nazionalità; e non si può escludere che anche in Europa il ritorno poetico della Dickinson sia stato ampio e variegato (in Italia, ad esempio, i primi che mi vengono in mente dopo sottile ricerca sono Manzoni e Gervasoni).
Tra i compositori americani affascinati dalla Dickinson c’è anche Gloria Coates, che tramite Naxos ha pubblicato un cd in cui vengono eseguite in prima mondiale il suo Piano Quintet e la sinfonia n. 10. I due brani sono affidati all’eccellente pianismo di Roderick Chadwick, all’ormai rodato e proficuo sodalizio con il Kreutzer Quartet (che ha coperto gran parte della produzione agli archi della Coates) e alla CalArts Orchestra diretta da Susan Allen (arpista sfortunata, deceduta subito dopo il debutto con la sinfonia della Coates). Di Gloria e delle sue qualità uniche ho già parlato in un mio precedente intervento (vedi qui), in questa sede mi preme sottolineare come i pezzi registrati su questo recente cd siano strettamente legati ad un’interpretazione estensiva della compositrice americana, che aveva già inciso tempo fa un ciclo di canzoni per piano e voce, impostati come lied sulle poesie della Dickinson. Il lavoro della Coates è quello di farsi trascinare dalle scosse provocate dalla poesia, impostare ed immaginare suoni che siano un completamento acustico di ciò che vibra nella lettura, e a tal scopo usa le sue armi compositive, quelle che l’hanno resa unica nel panorama compositivo, attingendo alle microtonalità, ai suoni pieni di armonici, ora glaciali ora speranzosi, facendo leva sull’indispensabile tecnica del glissando e le risonanze di clusters ed interni del piano.
E’ così che si resta avvinti dai movimenti del Piano Quintet, che lavorano su una tonalità disturbata, un clima torbido, avvolto dalla stranezza ma fascinoso (si tratta di rappresentare invisibilità, dita magiche, torrenti dell’eternità e trasporti luminosi).
Per la Sinfonia n. 10, dedicata alle pratiche colonizzatrici dei Celti a Erden, la Coates ha ripercorso i luoghi delle rovine e delle tumulazioni ricavando un materiale completamente subdolo: tre movimenti (titolati con frammenti di alcune poesie della Dickinson) a tematica differente, un po’ più scevri dalle tecniche utilizzate solitamente dalla Coates; si lavora sulle note lunghe e sulle dinamiche prolungate, in modo da formare un body sound piuttosto compatto che sviluppi una drammaturgia interiore. C’è un cerchio che si chiude giacché il primo movimento (Ages coil within) dominato dalle trombe, sembra porre all’attenzione uno stato; il secondo (The glory of Decay), totalmente svolto dalle percussioni, rintrona come farebbero gli effetti di una pioggia battente, mentre il terzo (Gamuts of eternity) unisce ottoni e percussioni verificando sul campo le due prospettive precedenti.