Sul finire del secolo scorso il concetto di ‘scarto’ in musica ha assunto un volto ben definito e di successo. Lo ‘scarto’ musicale, da intendersi come materiale secondario, casuale, normalmente non opportuno per essere usato nella composizione, ha avuto un periodo fecondo di esaltazione grazie ai musicisti dell’elettronica non accademica che ne hanno amplificato ruolo e condizioni esplorative. Tuttavia, nell’ambito della composizione classica, già serpeggiava un istinto concettuale sull’argomento, con aperture riflessive non conformi alle regole della teoria musicale: Fausto Romitelli era uno di questi avveduti compositori che si espressero specificatamente sulla validità razionale ed estetica dello ‘scarto’; Romitelli aveva capito che la teoria della musica accademica poteva essere integrata con suoni parassitari (la saturazione, per esempio) o suoni speculativi (il taglio e la riorganizzazione dello scarto sonoro ai fini compositivi). Su questo binario estetico-musicale si trova anche l’ideologia di Andrea Massaria e Alessandro Seravalle, che nell’esperienza Klang! hanno trovato un modo per trasferire i concetti di Romitelli e in generale sugli ‘scarti’ musicali in una struttura improvvisativa: se volete la genesi e un commento sul loro primo CD per Setola (pubblicato nel 2024) troverete una mia recensione che è esplicativa dell’approccio seguito dai due musicisti; si dà il caso che il progetto fosse fortemente disponibile per una parte percussiva e perciò i due musicisti hanno trovato immediatamente appoggio nel drumming poliritmico di Stefano Giust, integrando la loro relazione: il 10 luglio 2024 i tre musicisti si sono esibiti al museo Sartorio di Trieste nell’ambito dello Space Music – Musica Concreta Festival, e il risultato di questo concerto è ora disponibile in Klang! Scarto, un CD in cui Giust per omogeneità con gli altri due musicisti acquisisce un ulteriore nome tutelare che proviene dal mondo classico: di fianco ad ‘Anton (Webern) Klang’ per Massaria e ‘Karlheinz (Stockhausen) Larm’ per Seravalle, abbiamo per Giust ‘Edgard Schusse’ (ossia Varèse, seguito da una parola tedesca al plurale che dovrebbe significare in italiano tiri, colpi o spari).
Il concerto di Trieste dimostra tutto il valore di un’idea progettuale verificata a monte e a valle, in cui la dimensione musicale del trio emerge in tutta la sua prospettiva: da una parte c’è una cifra musicale pensata e implementata quasi naturalmente nel trio, dove gli ‘scarti’ di Massaria alla chitarra elettrica e di Seravalle all’elettronica, si uniscono al drumming frammentato e poliritmico di Giust, qualcosa che è certamente interpretabile come ulteriore ‘scarto’ proveniente da quella fonte; dall’altra c’è un’evidenza politica dietro il paradigma della ‘devianza’, poiché lo scarto in statistica individua un dato che non sta negli intervalli medi di un fenomeno ma ne costituisce difformità: è un’implicita derivazione della musica, che si presenta con suoni e articolazioni del momento che non hanno padroni alla fine, suoni e articolazioni che i musicisti hanno sperimentato e trovato in proprio e che possono costituire delle ottime controindicazioni al generale e imperante standard musicale voluto dalle multinazionali che hanno depotenziato l’efficacia politica e sociale della musica. Sì, perché l’improvvisazione libera è nata proprio con uno stimolo repulsivo verso i dogmi prestabiliti, le individualità a scopo di lucro o le realizzazioni perfette. Massaria continua ad incantare con il suo fraseggio chitarristico perfettamente in tema, ma anche Seravalle riesce nell’intento di fornire frammentazioni sonore dal bellissimo valore funzionale, individuando per una parte di questo concerto una propensione che gli appartiene, quella progressive coltivata nei suoi progetti in bands; Giust è al top, un drumming che più volte ho definito unico, ‘anxious’ and ‘streamlined’.
Klang! Scarto è una splendida incisione per l’improvvisazione italiana.
Nel 2010 Thollem McDonas e Stefano Scodanibbio si incontrarono per porre un essere il progetto discografico denominato On Debussy’s Piano and… per Die Schachtel. Nella titolazione di questo progetto era possibile scorgere i drivers componenti, ossia da una parte un acerbo riferimento di tipo pianistico al famoso compositore francese tutto da interpretare e dall’altra l'”and” finale, che rimandava ad un’ampia area dell’ignoto musicale tutta da riempire. Nei fatti Thollem e Stefano avevano perfettamente capito che la musica è fatta di vie trasversali, memorie di suoni sovrapponibili, coagulazioni di pensiero differente ed è possibile perciò creare le condizioni di una trasformazione vitale della musica, una anche senza regole prestabilite, da rinvenire in una performance. Sul piano debussiano sono innumerevoli le considerazioni tecniche che si fanno ancora oggi, le riflessioni sulle ‘aperture’ che il compositore francese è riuscito a trovare attraverso le sue partiture e Thollem è evidente che è stato affascinato da quegli accordi cadenti o da quel senso ‘ombroso’ che si ricava nel retrogusto musicale della composizione pianistica di Debussy: partire da questi anfratti musicali per poi integrare ed arricchire la musica con la propria espressione è un obiettivo comune a quello di Scodanibbio, che si offrì come partner al contrabbasso per una dimostrazione di qualità e ampiezza di vedute.
Evidentemente quel progetto non è mai stato dimenticato e Thollem lo ha tenuto vivo anche dopo la morte prematura di Scodanibbio; al O’Culto da Auda, a Lisbona, nel dicembre 2022, Thollem si è unito ad Alvaro Rosso per ritrovare l’idea di una ennesima, probabile identità di un progetto che non doveva estinguersi. Tre lunghe improvvisazioni stavolta compongono Memory of Ourselves:
-in Another Moon She Hears, In Return Once Again c’è nostalgia e dolcezza non convenzionale sotto un cielo che suscita classicità, dove lo schema debussiano è accennato e unito a brevi e veloci dirottamenti di sentiero, con Rosso molto concentrato sull’archetto;
–in Dreaming Of Living, The Pause Before le ombre sono molto evidenti, le cadenze sono interrotte solo dopo la metà del brano, quando le accelerazioni del pianista americano sembrano voler fare riferimento a Taylor e alla storia dei compressori armonici del pianoforte;
-From Now To Birth, A Lifetime Between perfeziona il clima cupo con posizionamenti differenti, da una parte linee melodiche che costituiscono un accenno di pensiero, in questo caso quello di un ipotetico pianista di un jazz club che fonde linee melodiche con accordi dissonanti; dall’altra atteggiamenti attendisti, fatti di poche note al piano e pizzicati al contrabbasso, tutto nella prospettiva di fondere un paio di ideologie, una classica ed una che sta fra l’afro-americanità e l’europeismo improvvisativo.
Il titolo del lavoro non mente. Qui si tratta di considerare trasformazioni della musica che ‘incitano’ al riconoscimento di un percorso vitale personale, dove l’istanza debussiana è spunto per una ricerca evocativa di una propria interpretazione, un lasciapassare utile per ottenere una sensazione che può spingere chiunque al rafforzamento del coinvolgimento della propria esperienza musicale.
‘Improvvisare’ significa anche ‘comunicare’. Ci si chiede come avvenga questa comunicazione. Per spiegarlo potremmo prendere in considerazione un concetto chiave che proviene dal mondo classico, in particolare quello di Karlheinz Stockhausen che parlava di ‘musica intuitiva’: i musicisti impostano suoni estemporanei facendo leva sia sui propri influssi che su quelli dei partners in modalità evolutiva, intuendo le direzioni; essi si scambiano supporti comunicativi secondo lo spirito del momento e le condizioni ‘biologiche’ dell’ambiente e dell’audience, dando luogo ad un rapporto tattile che è anche sana relazione di convivenza.
Un caso concreto di ‘comunicazione’ è certamente quello che deriva dalle intuizioni del Quartetto Psicogeografico, composto da Andrea Bini (piano e mirliton), Sergio Fedele (flauto, clarinetto, sax alto e tenore), Davide Negrini (percussioni) ed Enrico Caimi (batteria), che ritornano con 251, una registrazione in studio dell’ottobre del 2023 fatta all’Elfo Studio di Tavernago. I musicisti nominati non sono solo degli improvvisatori ma hanno anche un’ottima cultura della musica alle spalle: se qualcuno vuol prendersi la briga di andare ad ascoltare questi artisti sia nella dimensione di gruppo che singolarmente, capirà che esiste un tessuto connettivo con l’area classica che rimanda al Fluxus, al situazionismo, ai lettristi e ad un mondo alterato nella percezione degli spazi (il quartetto non è forma stabile ma suscettibile di aggregazioni che lo portano a quintetto o sestetto). Le improvvisazioni di 251 sono trattate come ‘sequenze’ provviste di un’ottima varietà di interventi: il clarinetto o i sax di Fedele sono stralunati ma efficaci, le percussioni di Negrini e Caimi lavorano come fossero in un ‘meccanismo’ imperfetto, procedendo nella casualità dell’approccio, mentre il pianoforte di Bini si fregia di tecnica estensiva, spunti caratterizzanti sulla tastiera e sorprendenti dissonanze. 251 è anche la sommatoria degli anni dei musicisti, ma è anche un numero primo del matematico cinese Chen Jingrun, che altro non è che prodotto di numeri primi, quindi una supersingolarità che sembra adattarsi benissimo al tenore musicale del quartetto.
In 251 c’è tutto quello che vuoi ottenere da una sessione improvvisativa: frammentazioni funzionali, attenzione ai timbri e una subliminale capacità di dare una dimensione al tempo presente che, per i musicisti in questione, significa porsi in contraddizione.
Tutti noi coltiviamo un’idea differenziata della sacralità e dell’aldilà. Il percussionista Francesco Cigana, per esempio, ve ne offre una di sacralità che è carica di mutamento e simbolismo. Nel suo nuovo solo (il secondo per Setola) intitolato idiomaticamente Sacro, Cigana utilizza una serie di espedienti e accorgimenti sonori che dovrebbero costituire reagenti utili per raggiungere la comprensione del divino o anche instaurare un legame invisibile con le persone care scomparse. In Sacro, Cigana ci vuole rendere consapevoli che la realtà sonora, nella sua piena completezza acustica e articolazione, può essere captata in diverso modo; un suono ridondante o il rumore di un qualsiasi oggetto raccolto nell’universo sonoro possono essere elementi di trasmutazione in ‘note’, ‘melodie’ o anfratti armonici, forgiando una comprensibilità estetica che può essere giudicata secondo criteri che riflettono una realtà interiore. Nelle note che accompagnano Sacro Cigana afferma senza indugio che “…quello che per noi è un fischio spensierato altrove è una lode funebre e ci sono strumenti che distruggono intere città, giocattoli che sono divinità annoiate, suoni sintetici ma fatti di vetro e acqua, orchestre gioiose di soli due strumenti, follie scatenate che sono preghiere, benedizioni ardenti e parole che affidano il loro significato ad altri tempi, altri luoghi, altri mondi, sommersi, dimenticati, lontani. È il sacro che si manifesta, nella sua forza devastante e nella sua follia, ineluttabile, puro e più che crudele, perché non conosce crudeltà…”.
In questa super poetica definizione del proprio lavoro Cigana ci fa capire che è possibile un transfert, qualcosa che implica l’importanza di un animismo tangibile in qualsiasi oggetto e della presenza di un ‘interlocutore’ divino, qualcuno che faccia da tramite tra i tutti i suoni e la comprensione dell’aldilà. Senza andare a scomodare sciamani e medium, per realizzare il transfert è necessario essere solo sensibili musicisti e scovare combinazioni musicali accettabili: su questo verte Sacro, 8 pezzi che incorporano una ricerca sonora sulle percussioni, fatta di tecnica estensiva e attenzione al suono, partendo dalle evoluzioni di spazzole ed oggetti rotanti sulla pelle di tamburi e rullanti, continuando con cimbali sospesi rotanti e largo uso di oggetti infantili (una sorta di massagiagengive, giochini in plastica, resti di filati di carta e fischietti), finendo a strutture metalliche altamente risonanti (puoi farti un’idea guardando qui il trailer del CD). L’apertura e chiusura del lavoro sono i momenti espliciti della linea filosofica di Cigana: infatti, in Mother’s Tongue, brano di apertura di Sacro, Cigana dispone una speciale conduction, con un coro maschile ‘puntato’ su un’armonia (gli Antenori) e la voce di Nina Baietta che pronuncia senza filo logico le frasi ‘il libro delle rose’ o ‘fare cyclette’ assieme ad una conta fino a 10; il finale è invece oggetto di sovrapposizioni della tromba di Mirio Cosottini; in entrambi in casi il messaggio subliminale è chiaro, le rose hanno un significato sacrale che, a seconda del loro colore e della tradizione religiosa corrisposta, risponde all’amore, alla purezza o alla devozione; il ‘fare cyclette’ è un modo per migliorare la resistenza fisica, così come contare fino a 10 è un esercizio che migliora la comprensione ma soprattutto serve per frenare l’impulsività; la tromba di Cosottini in Gerico è poi volontà di costruire una rigenerazione musicale, ridare una vista alla musica. E’ bellissimo ascoltare Cigana quando ammette un senso di ‘sottomissione’ della musica, una musica che è innegabilmente libera e spontanea.