Sulle strade americane: Little Feat

0
477
Dietmar Rabich, CC BY-SA 4.0, no change was made
Il giornalista C. Michael Bailey di All About Jazz nel descrivere un concerto dei Little Feat del 2007 a cui aveva assistito, intitolò il suo articolo con queste parole “Little Feat demonstrated once again that they’re a vital force in American Music“: sebbene l’affermazione tendesse a dimostrare come una formula musicale portata avanti da anni non fosse mai stata oggetto di tradimento, i Little Feat risalenti a quella data (della terza formazione) avevano onestamente qualcosa di criticabile nelle loro produzioni discografiche. Nel loro caso non era cambiato l’involucro musicale delle loro canzoni, ma la sostanza delle stesse si presentava assai diversa dai livelli raggiunti dalla prima generazione, quella di Lowell George, compianto leader fondatore del gruppo che seppe trovare nel progredire dell’american rock degli anni settanta una delle più serie ed eccitanti miscele degli elementi che da sempre l’hanno composto: in particolare oltre al blues e al country il gruppo di Lowell mostrava chiari riferimenti al jazz (nello specifico al ragtime, al boogie e al New Orleans Sound). In quegli anni tra i gruppi che avevano nelle loro impostazioni una chiare matrice rag c’era la Band, ma i Little Feat avevano delle loro caratterizzazioni;  la cosa unica era quel sapiente modo di mettere assieme tutti i pezzi, dagli attacchi iniziali agli assoli, dal canto pigro e mai monotono di Lowell, foriero di melodie di “lungo periodo” (ossia che resistono agli ascolti nel tempo) con un pizzico di bislaccheria; nessuno meglio di loro impersonava nei fatti l’uomo di strada americano, quello che ritornerà spesso nelle canzoni di tanti artisti statunitensi come Springsteen o Seger. Come molti sapranno la loro “Willin'” può considerarsi l’inno dei camionisti, ma in generale Lowell e soci erano indirizzati agli sfortunati, senza denaro o senza gloria, dove i temi venivano comunque trattati con un ironico senso di strafottenza.
Se qualcuno vuole avere un’idea esatta della forza compositiva e della potenza del gruppo può cominciare ascoltando “Dixie Chicken” nella versione live di “Waiting for Colombus”: in quel brano oltre ad una esorbitante essenza di pianismo rock (Bill Payne) si troverà quella sapienza ritmica e strumentale di cui era in possesso il gruppo. Da parte mia e tanti anni fa, consumai il vinile di “Sailin’ shoes“, loro secondo album del 1972 che tralatro aveva un’interessante copertina disegnata dallo sfortunato Neon Park (morto giovane per una malattia degenerativa) che infondeva serenità (una torta umanizzata su un’altalena e un sfondo di prato verde) e bizzaria allo stesso tempo: io penso che in quel momento i Little Feat raggiunsero la massima celebrazione dell’american way in un lavoro che li emancipava da un generico approccio dei gruppi di southern rock dell’epoca (il loro esordio “Little Feat” si era mostrato ancora molto immaturo sebbene per Lowell fu utile per mutuare modalità espressive della chitarra di Ry Cooder che partecipava al disco); qualcuno, poi, troverà il seguito di “Sailin’ shoes” addirittura superiore (“Dixie Chicken”), specie se si trova nella situazione oggettiva di amare in misura maggiore il R&B.

Feats don’t fail me now” recupera il senso del rock’n’roll e del collettivo strumentale, ma è anche il momento in cui quella favola si incartoccia; da “The last record album” si avverte un certo cambiamento, Payne e Barrere stavano prevaricando la scrittura di George e il sound si incuneava in meandri molto vicini ad una “fusion” tra rock e istinti jazz nel solco però di un melting pot teso all’intrattenimento. La verità è che già si stava compiendo quel processo di “normalizzazione” nella scrittura che tendeva a smussare dolcemente gli angoli che invece “Sailin’ shoes” e “Feats don’t fail me now” avevano affrontato magnificamente in tutto il loro percorso. Dopo la morte di Lowell nel ’79 il collante del gruppo fu il vocalist Craig Fuller che lo guidò da “Let it roll” del ’88 fino a “Shake me up” del ’93” recuperando in parte la propensione rock del passato e poi da Shaun Murphy a partire da “Ain’t had enough fun” del ’95, che comunque non apportava grandi novità; anche “Rooster Rag” non è quindi esente dalle solite considerazioni: la macchina dei Feat è diventata simile a quello che succede bevendo quei vini d.o.c. in cui sai già cosa ti aspetti quando porti il bicchiere alla bocca…. con la sola attenuante costituita dal fatto che di quel vino ogni tanto (incredibilmente) ne sentiamo ancora il bisogno.

Articolo precedente20 Personalities of Akira Sakata
Articolo successivoLa tradizione musicale del Sud Italia
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.