Recensione originariamente pubblicata su esoteros, courtesy l’autore.
La libertà in musica è da tutti convenzionalmente associata alla figura di John Cage, lo spartiacque del Novecento che ha aperto la creazione sonora al caso, al silenzio e ai più eterodossi approcci performativi. Ciò che a molti sembra sfuggire è che tale libertà estrema riguarda quasi esclusivamente la scaturigine, ovvero il compositore stesso, mentre agli interpreti coinvolti è richiesta una fedeltà rigorosa ai principi stabiliti da Cage, alla sua peculiare – e pur sempre individuale – visione.
Ci è voluta l’audacia, ma soprattutto la generosità intellettuale, di un autentico outsider come Cornelius Cardew (1936 – 1981) per “canonizzare” l’espediente della partitura grafica, offrendo di fatto lo spunto per un’infinita gamma di scelte espressive, l’input per una lettura autonoma e autoriferita entro cui l’ideatore originario non ha più alcuna voce in capitolo.
Ecco cosa significa realmente ‘uscire dal quadro’, rinunciare alla paternità dell’artefatto musicale in favore della Musica stessa: un linguaggio che nasce senza sintassi o grammatiche, condizione atavica alla quale, una volta dato fondo a ogni sorta di stilema consolidato, essa aspira sempre più fortemente a ritornare. In tal senso “Treatise” (1963/68) è stato ed è ancora oggi un viatico essenziale, un capitolo di culto e un memorandum per ogni musicista sperimentale che rifiuti stoicamente i compromessi e ricerchi, attraverso la pratica artistica, null’altro che la propria essenza.
Numerose le sensibilità che nel tempo si sono confrontate con la pietra miliare di Cardew, dagli ensemble AMM (del quale fu fondatore), Formanex e Gerauschhersteller ai solisti Oren Ambarchi, Noël Akchoté, elizabeth Veldon, Francesco Fusaro e, davvero non ultimo, il biografo e discepolo John Tilbury (The Tiger’s Mind, 2019). A questa ricca tradizione si era già aggiunto nel 2015 il percussionista sloveno Jaka Berger con l’album Breakfast With Cardew (autoprodotto sotto lo pseudonimo Brgs), e che oggi torna con maggior consapevolezza sui suoi passi ospitato da Friforma, succursale della connazionale etichetta Inexhaustible Editions di László Juhász.
Presentate prevalentemente alla rinfusa negli undici take dell’album, le ventidue pagine estratte da “Treatise” divengono, per Berger come per l’ascoltatore, un’occasione per passare in rassegna le conquiste fatte nell’ambito delle tecniche estese in rapporto agli strumenti a percussione: non più soltanto elementi ritmici, bensì insiemi di superfici e componenti materiche entro le quali si celano dense tonalità e timbri multisfaccettati; un microcosmo di risonanze svelato per mezzo di archetti e oggetti estranei ricontestualizzati al fine di trasfigurare, anche solo in un dettaglio minimo, il volto noto del drumkit.
La performance assume così i tratti di un’indagine fenomenologica a tutto campo che pure non manca di rimarcare il battito in quanto matrice primigenia del gesto musicale: tra le varie incursioni dai vorticosi ritmi spezzati – il lato più palese di un virtuosismo che è da intendersi anche “verticalmente” –, Berger si affida volentieri alla fisicità non mediata delle mani a contatto diretto con le pelli e i piatti, e in nessun caso dà per scontata l’adozione di bacchette, mazze e altre appendici, affinché ogni sequenza rappresenti una singolarità acustica sfuggente, non del tutto identificabile in sede di puro ascolto.
Da ultimo la scelta più radicale: con un laconico spazio bianco a sovrastare le righe del pentagramma, la pagina 141 si ricollega al 4’33” cageano ma ne estremizza ulteriormente l’assunto, poiché affrancata persino dai concetti di ‘movimento’ e di ‘tempo’ (ancorché in senso strettamente cronologico e non musicale). Berger la traduce semplicemente in un’inazione dalla quale emergono voci, passi e rumori ambientali in lontananza, e che tuttavia sarebbe potuta durare la metà o dieci volte tanto rispetto ai cinque minuti e mezzo di questa iterazione. Anche il bianco, d’altronde, è certamente passibile di letture differenti, in quanto sintesi additiva di tutti i colori e negazione formale dietro cui può risiedere la quiete come il caos più assoluto; insomma una pagina che, più d’ogni altra, risulta tutta da scrivere.
Alla luce del completo arbitrio offerto dalla partitura grafica – priva com’è di notazione classica, sostanzialmente “disegnata” –, ogni esecuzione della stessa non andrebbe forse considerata come una pura e semplice improvvisazione? In ultima analisi sì, ed è questo, forse, il più grande testamento lasciato dal pioniere Cardew ai posteri: l’altruismo nell’offrire un’ispirazione, una scintilla d’ingegno creativo a chiunque ne abbia bisogno, senza poi rivendicare la proprietà della fiamma che da essa spontaneamente si sprigiona. Ma il fatto stesso che una singola opera possa contenere in potenza tutte le interpretazioni immaginabili (compresa l’ottima, fantasiosa prova di Jaka Berger), elidendo con ciò i concetti di giusto o sbagliato, è di per sé bastante ad annoverare “Treatise” tra i più importanti contributi all’evoluzione della musica contemporanea.