Paolo Conte: ricordo di Francia

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La popolarità di Paolo Conte si manifestò con plurimi ritardi: non solo l’astigiano cominciò in età matura a suonare in maniera professionale, ma anche il pubblico si accorse di lui almeno 10 anni dopo il suo esordio discografico del 1974 (il primo Paolo Conte). Nell’Italia delle Buone Domeniche di Venditti o delle Svalutations di Celentano, il posto di Conte sembrava davvero difficile: testi che svelano le incongruenze della vita adulta, una voce navigante tra propensioni trasversali (la verve dei cantanti francesi e l’afflato leggero di un Fred Buscaglione) e uno swing appena accennato, erano elementi che avevano un compito difficile nel fare breccia di fronte ad una audiance che stava sperimentando il saccente ermetismo dei cantautori italiani (De Gregori, Guccini, Dalla, etc.) o il vuoto assoluto di molta musica popolare. Ricordo con molto piacere che i primi approcci del sottoscritto con la musica di Conte arrivarono con le recensioni di Concerti, il suo primo live del ’85, che destava l’interesse della stampa rock dell’epoca: le principali riviste cartacee dell’epoca (Buscadero e Il Mucchio Selvaggio tra le prime) lo riportarono nella prima pagina delle recensioni, accanto a mostri sacri del rock internazionale, con tanto di accorata segnalazione positiva per l’acquisto; in quel live Conte sistemava il pregresso musicale con uno degli arrangiamenti più raffinati che potesse dare alle sue canzoni, concentrate su un’esposizione perfetta dei temi scelti e su un ensemble pieno di virtù sonore e melodiche.
Da allora su Conte è stato scritto molto, mettendo in risalto molti aspetti della sua personalità artistica, con contributi sparsi tra interviste, articoli su periodici o monografie dedicate: Paolo Conte, Ricordo di Francia, il libro che Paolo Pinto ha dedicato all’autore italiano per Auditorium Edizioni, può essere dunque un viatico perfetto per raccogliere definitivamente gli aspetti salienti del percorso dell’astigiano, in un’ottica in cui vengono privilegiati alcuni elementi, segnatamente l’esperienza effettuata nei teatri, con particolare riguardo al successo ottenuto in Francia, e il riscontro interdisciplinare che la musica di Conte ha fornito nei rapporti con la cinematografia, una pietra angolare dell’intera costellazione artistica creata da Conte.
Pinto dà una definizione al limite della perfezione quando, nel descrivere l’esibizione al Theatre de la Ville dell”85, riesce a cogliere in Conte le qualità di catalizzatore sentimentale: “….grazie ad un linguaggio che, seppur straniero, avvicina e crea un legame di immediata simpatia con il supporto di espressioni curiose, incursioni in lingue straniere e l’uso di sillabe che rimanda alla tecnica dello scat del canto jazz, Conte rivela un’antica e discreta cortesia del porgersi che prende il pubblico per mano e lo accompagna nell’universo delle sue passioni, dei suoi dubbi e dei suoi amori….“. C’è un’algida armonia che segue l’itinerario musicale di Conte, che inevitabilmente piace agli amanti della musica ed in special modo a quelli del jazz e della musica classica: quel 1985, con l’inizio della programmazione teatrale francese, è perfetto per cogliere questa estetica, prendere le dovute distanze dal contesto popolare e creare una diversa attenzione per l’artista, così come fondamentale è rimarcare le vicinanze con il cinema, che hanno permesso ad alcuni di avvicinare lo spirito narrativo delle canzoni di Conte a quelle del Fellini di 8 1/2; in un capitolo dedicato a Razmataz, Pinto illustra benissimo le connessioni tra Montmartre negli anni venti, la frenesia delle arti nascenti e l’innesto dell’intrattenimento della musica afroamericana. La visuale di Pinto è sempre attenta a porre bene in risalto le dimensioni, senza sovrastrutture e con perspicacia descrittiva; probabilmente Pinto vede Conte come si vede un compositore classico e il suo omaggio segue forse questa visuale, con l’accoglimento di citazioni profonde della critica e del giornalismo di settore, che si accompagnano alle sue considerazioni. Le due caratteristiche precedentemente citate (teatralità e cinematografia) si percepiscono anche nel collage di foto che corredano il libro, situate al centro di esso: un Conte professionale, dall’immagine scenografica, con le fotografie dei manifesti murali dei suoi concerti francesi.
Conte è un musicista profondamente immerso nel Novecento, in un modo che naturalmente resta scomodo a molti pensatori della musica: tuttavia non si può obiettare che egli abbia affrontato un particolare limbo dell’espressione musicale, dove ha fatto confluire lo swing, la canzone d’autore, i paradigmi della vita del novecento e quello che Pinto chiama giustamente pastiches, ossia la curiosa fusione di elementi certificanti uno spirito ironico di gesti e pronunce provenienti da archetipi del mondo artistico. Del suo 900 (Lp del 1992 che ricordo anche per un difetto di fabbricazione, un’accentuata ovalizzazione del vinile tale da farlo girare sul piatto come un'”onda”) condividiamo le scelte, le tracce che le vicende umane lasciano nella psiche (spesso nebulose senza sviluppo) ed un senso della raffinatezza che oggi è stato irrimediabilmente perduto.