Paul Bley e la trasformazione del jazz

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dettaglio cover libro Liberare il tempo, foto di Roberto Polillo - Bley, Lugano 1966

Viene ristampato per la prima volta in italiano Stopping Time: Paul Bley and the Transformation of Jazz, il libro di David Lee sul pianista canadese Paul Bley. Tradotto da Gabriele Zobele, il libro è una sorta di autobiografia di Bley voluta da Lee per testimoniare il percorso artistico del pianista, un approccio che manda in soffitta le narrative della vita privata e cerca di offrire una dinamica degli eventi in grado di evidenziare la tecnica e i cambiamenti rapidi che il periodo vissuto da Bley ha sperimentato. La versione italiana del libro per Quodlibet (che si inserisce in una collana di saggi e ristampe italiane su alcuni big del jazz internazionale) è poi corredata da una prefazione di Stefano Zenni, una nota di Antonio Zambrini, bibliografia e discografia aggiornata del pianista e un’introduzione dello stesso Lee, tesa alla verifica dei contenuti anche dopo la dipartita di Bley nel 2016.

Liberare il tempo. Paul Bley e la trasformazione del jazz può costituire testo di riferimento iniziale per tutti coloro che vogliono approfondire su questa icona del pianismo della musica afroamericana poiché Bley, sotto l’influsso della raccolta delle informazioni di Lee, descrive con precisione e progressione temporale la sua vita di musicista, condensando la particolarità tecnica di quanto suonato all’interno di un’area di racconto che non può prescindere dalle descrizioni dei luoghi frequentati, dalle relazioni con gli illustri colleghi o dagli eventi musicali (concerti o raduni di musicisti che fossero). Questo consente al libro di essere scorrevole e piacevole nella lettura, senza accademismi di sorta, perfetto per il neofita con una buona preparazione sul jazz, ma anche in grado di garantire degli spunti interessanti per gli esperti del genere, poiché Bley è stato sempre molto abile nel fornire le chiavi di lettura della sua musica di fronte a qualsiasi tipo di interrogazione o spiegazione.
D’altronde è difficile non restare calamitati dalla storia di Bley, che scopre di essere stato adottato solo quando diventa ragazzino, un evento che lo spinge ancor di più nel vortice della musica jazz e gli fa acquisire ben presto molte responsabilità: da una parte, questa maturità precoce qualcuno la può considerare una fortuna perché il Bley giovanissimo era già gettonatissimo negli ambienti jazz, riconosciuto dalla comunità internazionale come un punto di riferimento non solo per bravura e tecnica, ma anche per le sue qualità di organizzatore di formazioni e uomini, in sostanza una persona in grado di reggere il contatto con i managers dei concerti o delle etichette discografiche e saper opporre una reazione selettiva; dall’altra, tutto questo comportava prendersi carico di viaggi continui e al limite delle risorse finanziarie disponibili, oppure fare esperienze politiche o artistiche occupandosi in prima persona della contabilità di queste entità (si pensi all’impegno raggiunto con la gestione del Jazz Composers Guild o della sua label, la Improvising Artists).
Tutti i racconti scorrono con un occhio sulla condizione dei tempi, sulla volontà di progredire e acclarare canali alternativi del jazz: significativi sono i suoi viaggi a New York e Los Angeles tra gli anni cinquanta e sessanta, il calcare gli scenari dell’Hillbrest Club che gli permette di suonare con Ornette Coleman, la costante detenzione di una forma libera di musica che non trovava il giusto riscontro di pubblico, la differenza nel suonare in solo o in contrappunto, l’apprezzamento incondizionato di artisti come Gary Peacock o Jimmy Giuffre, con cui cementare una visione del jazz disintegrata spesso nei suoi elementi costitutivi.

Cosa significa “trasformare” nel caso di Bley? A pag. 76 del libro, ci sono alcuni indizi per valutarla, allorché Bley dice che:
“...nell’estate del 1955 ero stato contattato dal critico Bob Fulford per un’intervista che sarebbe apparsa su “Down Beat”. L’articolo, che occupava una pagina intera della rivista, venne pubblicato sul numero uscito il 13 luglio di quell’anno col titolo ‘Il jazz è pronto per un’altra rivoluzione’. Nel pezzo era riportata una mia frase: “Sono impaziente di mettermi a scrivere. Voglio sperimentare forme più lunghe, lavorare con armonie sovrapposte e provare a scrivere musica senza un centro accordale”...”.
Se si unisce quanto appena citato con le registrazioni di Bley di quegli anni, si intuisce come il pianista avesse già masticato tutte le forme del jazz e volesse arrivare ad un approccio insiemistico, dove farle apparire tutte negli sviluppi della musica: se sui tempi era spesso palese l’irregolarità dell’espressione, sull’armonia Bley mostrava un suo punto di vista che veniva dalla musica classica, un impatto misto tra tonalità e atonalità che non disdegnava affatto l’importanza anche di una relazione nuova e proficua con la scrittura, quest’ultima certamente non disponibile in grandi quantità nelle facoltà degli improvvisatori, soprattutto qualora si superassero i più intuituivi e semplici rapporti con i temi. La trasformazione di Bley, perciò, in quegli anni, ribadisce e mette in crisi coloro che hanno sempre ritenuto che gli sviluppi dell’improvvisazione idiomatica sia in sostanza un affaire degli afroamericani, in quanto produttori di nuove forme e caratterizzazioni del genere: pur non avendo nulla a che fare con armonizzazioni di tipo francese o con volubilità classiche alla third stream, Bley si incastra nella storia come un indipendente pensatore della musica jazz, che mira ad un concetto di improvvisazione totale della musica che viene posto in essere con il suo stile (su questo punto leggi qui le mie considerazine nella mia recensione sull’ultimo CD che Bley pubblicò come estratto di un suo concerto ad Oslo).

La seconda ricchezza trasformativa del percorso artistico di Bley è un’apertura musicale che non si può affatto sottacere e sta nell’essere stato il primo ad utilizzare ufficialmente nell’improvvisazione i synths, spinta che sembra essere stata ricevuta non solo dal sodalizio artistico e privato con Annette Peacock, ma anche casualmente da un’intervista fattagli da Down Beat nel 1969, in cui il giornalista gli chiese un parere sui sintetizzatori con tastiera; la preparazione e le competenze di Bley passano nella descrizione del libro attraverso tutta una serie di eventi e fasi propedeutiche che lo porteranno prima alla realizzazione del primo concerto in assoluto per synth e voce trattata, alla Phiharmonic Hall nel ’69 assieme alla Peacock, e alla registrazione di album eccellenti e, ahimé, oggi fluttuanti nell’oblio (si tratta di Improvisie e Dual Unity del 1971 e I’m the One nel ’72 per il debutto della Peacock). E’ sintomatica della personalità di Bley l’atteggiamento che il pianista ebbe nell’incendio della stanza in cui erano custoditi i suoi sintetizzatori, poiché dopo essersi persino pregiudicato un dito nel salvare gli strumenti, Bley è caustico nell’affermare che “...capii in quel momento che il gioco a cui avevo sempre giocato non era acquisire cose [..] ma acquisire capacità. In qualche modo mi sentivo appagato, completo, del tutto autosufficiente, anche se guardandomi attorno, nel mondo che stava al di fuori di me, non possedevo evidentemente più nulla. Alla fine, pensai, l’unica vera ricchezza è quella che hai nella testa. I beni materiali puoi perderli, ma capacità e intelligenza saranno tue per sempre...” (Bley, cit. pag. 141).
E’ la rivelazione di una tenacia esistenziale dell’artista, qualcosa che influisce sul modo di pensare di Bley, che si immedesima nell’evento che si realizza, lo vede svilupparsi, cerca di trarre delle direzioni: tutto ciò è costantemente ribadito in Liberare il tempo. Paul Bley e la trasformazione del jazz, dove la libertà di azione e i metodi per realizzarla sono uniti da una corrispondenza dettata dalla condotta esperenziale, anche quando questa non porta cose buone. Nella parte finale del libro, scritta da Bley dopo che la sua vita era cambiata in positivo in termini di concerti e impegni lavorativi, si fanno avanti persino delle previsioni sulla musica jazz e su quella pianistica, idee che preconizzano possibilità nuove (armonici, microtonalità, modulazioni ai synths) sulle quali Bley si interrogava periodicamente con il timore reverenziale di applicarle in una giusta soluzione. Sono “armature” della cognizione musicale che regalano una prospettiva aggiuntiva di Bley, che molti invece hanno imparato a riconoscere nelle transizioni normali del jazz e di un costipato blues; con molta franchezza, bisogna ammettere che l’inventiva avanguardistica di Bley va ricercata con attenzione nella sua produzione musicale perché è fuori dubbio che, per esempio, albums come The Paul Bley Quartet (con Surman, Frisell e Motian) o Hands on siano differenti e meno sperimentali rispetto ad un Sankt Gerolde (con Parker e Philips) o ad un Axis.
A parer mio questo libro mira soprattutto a dirigere il lettore verso la dimensione innovativa di Bley, secondo le necessità di un racconto e non di un approfondimento teorico che probabilmente non era negli scopi del libro. Forse, per quelli più esigenti potrebbe non essere sufficiente, ma in linea generale consente di seguire la direzione giusta nel delineare e interpretare correttamente la visione ampia e creativa di Bley.