La giovane improvvisazione italiana: Claudio Vignali

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photo courtesy by Claudio Vignali

Nel senso attribuito alla musica, una risorsa importante per il musicista è quella di creare delle reti emozionali diffuse, che siano in grado di evitare le finzioni, l’arrivo di nuovi dinosauri o, nei casi meno vantaggiosi, rilevare acriticamente il peggio che può esprimere il mondo dell’arte. La rielaborazione degli elementi è un sottile gioco di specchi, un luogo dove la sensibilità del musicista crea nuove dimensioni che sono anche nuove testimonianze della musica del nostro tempo. Non me ne vogliano musicisti e giornalisti del jazz, ma è da tempo che il jazz italiano è in una cronica fase di stagnazione (naturalmente con le dovute eccezioni) che mette in crisi quel gioco di specchi a cui ho appena accennato: le idee e la creatività sono minime, si specula su un genere invece di trovare vie di fuga intelligenti, si fa opera di accondiscendenza verso un pubblico che avrebbe bisogno di maggiore educazione nel trovare i suoi “miti”.
Le eccezioni? Ci sono! E in questa puntata sulla giovane improvvisazione italiana ve ne propongo una: il pianista Claudio Vignali (1986). Nonostante la giovane età, Vignali ha già una considerazione molto positiva negli ambienti musicali, probabilmente per i premi ricevuti in alcuni concorsi importanti di pianoforte (al Parmigiani Montreux International Jazz Piano Solo Competition 2013, Vignali venne selezionato tra i migliori 10 pianisti del mondo sotto i 30 anni); Vignali però ha anche fatto molta attività concertistica in giro per il mondo ed ha inciso anche un primo cd a suo nome nel 2014, dal titolo Indu Juggernaut. Lo stile di Vignali risulta di base romantico, ha nel suo dna pillole dei principali pianisti jazz nordici come Jon Balke, Bugge Wesseltoft o Tord Gustavsen, ma ne tiene conto di loro in un particolare sistema. Le collaborazioni sviluppate immediatamente dopo Indu Juggernaut da una parte hanno cercato un conforto emotivo in terra d’Islanda, per un jazz intriso di luci nostalgiche e sostegni alla drammaturgia vocale di Oddrun Eikli (Vignali conoscerà il trombettista Arne Hiorth e sarà oggetto di un tour islandese), dall’altra hanno indicato sviamenti dal jazz tradizionale, proponendosi però come inserimenti programmati nella musica di promettenti artisti come Frank Martino e Daniele Principato.
Il recente Rach mode on è, senza mezzi termini, un salto di qualità incredibile per il pianista di Porretta Terme, perché si indirizza su un progetto ben preciso e lavorato con intelligenza per sintonizzarsi su quella rete emozionale di cui si accennava nell’incipit; composto assieme all’indispensabile Principato (alla chitarra midi e ad una parte dei dispositivi di elettronica usati) e con gli interventi della tromba di Rob Mazurek (che abbiamo imparato a conoscere in versioni plurime ed avanzate), Vignali si inventa una sorta di incredibile ed eclettico tributo a Rachmaninoff, che però ha una filosofia del tutto personale, perché cerca di avvicinare mondi musicali completamente differenti nell’estetica, quello del periodo del pianista russo con quelli odierni; il collegamento alla fine arriva e sta proprio nel “sentimento”, nel “dreaming sound” come qualità di cui Vignali sa cibarsi anche nelle fasi più tecniche. Nelle sue parole: “…this work is a lab creature. Think of taking Rachmaninoff in the future and putting him in a room full of mysterious music objects. Plug in and press “On”…”; l’operazione di laboratorio viene attuata grazie a sindromi elettroniche studiate benissimo, manipolazioni di vario genere opportunamente inserite nello svolgimento dei pezzi, con Claudio che si adopera con sintetizzatori e tastiera Korg, introducendosi anche nella sorgente dell’interazione con loops di pianoforte o di suoni: i loops restituiscono strati musicali su cui il pianista interagisce con proprie improvvisazioni del momento, rimandando segnali nel circuito. Si forma così un campionario di suoni, più o meno puri, che sono gli oggetti derivati con cui il nostro “Rachmaninoff” si trova ad aver il suo fare. Vignali pone in essere un brillante travestimento: gran parte delle “mitizzazioni” della musica moderna tornano nelle disponibilità di un pianista del primo novecento, sotto forma di condensazioni sonore, piccoli e brevi tracciati avvertibili lungo il percorso con forme dolci e astruse; ci sono alcune vie armoniche dei pianisti moderni, l’improvvisazione elettroacustica e la jungle music di Miles Davis, la tecnologia del loop e del remix, la mitologia e le sublimazioni del prog-rock, il legato del talking e delle voci pre-registrate, i colpi beat e della techno, l’ambient dei settanta e il suo profilo meditativo. Sono tutti elementi di inondazione dell’ascolto. Il suo pianismo va oltre quanto fatto dai pianisti nordici in materia: è qualcos’altro rispetto al dinamismo di Wesseltoft così come è qualcos’altro rispetto a Jon Balke, soprattutto quello del versante progettuale dei Batagraf (l’anello più vicino e paragonabile del suo lavoro), in quanto ci può essere solo un piccolo riferimento in merito a melodicità e costruzioni di elettronica, dal momento che Vignali mette in moto un processo di manipolazione che non è in uso a Balke e ai quei pianisti. Quello di Rach mode on è un ambiente fantastico, dove la creatività e l’improvvisazione sono altissime, un candidato perfetto per diventare lavoro dell’anno in qualsiasi rivista musicale che si occupi seriamente di musica. 


Come abitudine nella tenuta della rubrica ho contattato Vignali per ottenere (e dare ai lettori) una migliore comprensione di quanto ho appena detto.

EG: Innanzitutto i miei complimenti per Rach mode on, un’operazione che sdogana molte delle consuetudini del jazz odierno. Per prima cosa, ti chiedo di spiegare un pò più in dettaglio il sistema di interazione tra strumenti acustici ed elettronica che pervade il lavoro e il tipo di manipolazioni create.
CV:
Il sistema di improvvisazione tra strumenti acustici ed elettronica è stato elaborato negli anni insieme a Daniele Principato, con il quale ho iniziato a collaborare nel 2012. Il primo passo è stato riprendere e trattare il suono del pianoforte, utilizzando la tecnica del real-time loop remix. Con questo metodo, mentre io improvviso, Daniele interagisce insieme a me con l’elettronica, sovrapponendo loop, aggiungendo effetti, cambiando il pitch. Nel disco abbiamo anche utilizzato altre fonti sonore tra cui ad esempio una “molla di ferro” che viene manipolata elettronicamente e crea nuovi ambienti sonori. Al nostro duo si è aggiunta la partecipazione di Rob Mazurek alla tromba ed elettronica.

EG: L’idea principe del cd sottintende un certo potere di sostituzione tra te e quanto appreso come reminiscenze stilistiche di Rachmaninoff, una sorta di interscambiabilità real time. Sento dei legami melodici con quanto sperimentato nel mondo pianistico nordico da musicisti come Jon Balke o Bugge Wesseltoft, soprattutto nell’interesse mostrato sui supporti ritmici che diventano parte di un tutto, anche se in questi artisti manca l’approfondimento sulla manipolazione improvvisativa così come è stata pensata da te e Principato. Tra tanti pianisti del romanticismo e classicismo, perché ti sei indirizzato su Rachmaninoff? Da cosa deriva l’ispirazione verso la sua personalità musicale?
CV: Rachmaninoff è pianismo totale, emozionante, profondo. La sua concezione dello strumento è straordinaria, moderna e con una gamma di colori infinita. Ho sempre sentito la sua musica molto vicina anche da un punto di vista emotivo. Iniziai i primi ascolti e lo studio del compositore da piccolo, partendo dai concerti per piano e orchestra alle opere per piano solo, tra cui gli “Etudes-Tableaux”, le “Sonate”, i “Preludi” e i “Sei Momenti Musicali”. Diversi anni fa, ho studiato come improvvisare nel suo stile; nella traccia “Rach Mode On”, viene riproposto in alcuni momenti questo mio percorso. L’idea alla base di questo brano è però di una concezione pianistica personale, uno stile fondato sull’improvvisazione che abbraccia classica e jazz, le due forme d’arte che mi hanno formato. A tutto questo si aggiunge la strumentazione elettronica che interagisce con la parte acustica. Da un punto di vista più compositivo le voci e i violoncelli costituiscono la parte “orchestrale” del brano. Il brano “Rach Mode On” è quindi un concerto per piano e orchestra immaginato in un’epoca moderna.

EG: Rach mode on convoglia una pletora di elementi che hanno fatto breccia negli umori di un certo jazz più incline ad accogliere la riflessione, il benessere onirico, ma anche la rappresentazione di una realtà che è fatta anche di apprensione, di battiti e di profili estetici che chiamano in causa una letteratura cosciente delle novità del presente. Condividi con me il fatto che questo insieme di elementi musicali ed emotivi può essere un’espressione artistica aderente ai tempi attuali?
CV: Volutamente e istintivamente, io e Daniele abbiamo cercato di raccontare quello che viviamo oggi, sia da un punto di vista emotivo che musicale. Al tempo stesso però nella nostra arte è molto forte anche la volontà di creare altri mondi, lontani e onirici. Vogliamo proiettare l’ascoltatore in un viaggio che può essere vero ma capace di mutare da un momento all’altro in una dimensione immaginaria. Questa dualità caratterizza il nostro modo di vivere; arrivare quindi al concetto finale che ho descritto è stato un processo naturale, abbiamo semplicemente messo le nostre esperienze in comune e creato un modo per comunicarle.

EG: In Rach mode on la titolazione riporta ad immaginazioni fantastiche o mitologiche (fauni, cervelli alieni, navi inabissate) e forse anche ad immagini mistiche: mi riferisco ad Hexagonal (l’esagono), che è una delle geometrie più usate per la conduzione di questo senso; nella tradizione sufi i sei lati dell’esagono indicano direzioni (avanti, indietro, destra, sinistra, sopra, sotto) o anche sei virtù (generosità, disciplina, determinazione, compassione, lucidità, pazienza). Questi elementi presuppongono una ripresa della complessità letterale della musica, un suono ricco di novità che fa ricordare le prese di posizione degli anni settanta: con mezzi attuali, nella tua operazione sento un forte ritorno alla virtù della musica. Quanto pesa oggi per un’artista ottenere musica con queste caratteristiche?
CV: Gli anni settanta sono stati un periodo incredibile per la musica e la società, anni di svolta politica, tecnologica e sociale. Sicuramente ci sono moltissime affinità con il nostro album da un punto di vista ideologico e strumentale.
Credo che oggi un’artista debba sostenere la propria verità musicale, soprattutto in una società che spesso non si allinea con la bellezza dell’arte e del voler fare cultura. Per quello che mi riguarda, continuare ad esplorare nuovi confini nella mia concezione musicale è una missione ardua, ma è l’unica strada che posso intraprendere, perché rappresenta me stesso. Se un artista cerca di rimanere sé stesso e crede in quello che fa con sacrificio e dedizione, la sua opera diventa comunicazione diretta all’ascoltatore.  Sono felicissimo di poter condividere tutto questo con Daniele Principato che ha creato tutto insieme a me, e con i fantastici ospiti presenti nel disco: Rob Mazurek, Enrico Ferri, Serena Zaniboni. Un ringraziamento particolare va a Marco Valente che ha ha prodotto “Rach Mode On” per Auand Beats.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.