Gli approfondimenti della ricerca musicologica di Marcello Piras: il suo libro “Dentro le note” e un’intervista

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Gunther Schuller fu uno dei primi allertatori sulla condizione avvenente della musicologia jazz: egli, riconoscendo una centralità planetaria alla musica cosiddetta afro-americana, poneva le sue ambiguità in relazione alle deficienze degli specialisti in materia e soprattutto alla povertà informativa dell’audience. Negli anni della maturità del genere (i settanta/ottanta), la figura del musicologo jazz poteva considerarsi un unicum su cui pochi vantavano la forza e la volontà di costruire teorie del tutto votate a creare una musicologia autonoma del jazz. In Italia vennero fuori parecchi poli di interesse (dal Dams di Bologna ai seminari di Siena, dalle rubriche di Musica Jazz al Sisma), in cui particolare considerazione venne data ad alcune figure tra cui, senza dubbio, un primato spettava a Marcello Piras, eccellente studioso che in queste pagine ho già avuto modo di segnalarvi. Lo sforzo ricostruttivo sembra non arrestarsi e Piras, oltre ad aver delineato con precisione gli scenari nei quali la sua attività oggi si trova, continua a scolpire e migliorare gli architravi fondamentali del jazz in chiave conoscitiva.
E’ recente il suo nuovo volume edito per l’Arcana, dal titolo “Dentro le note. Il jazz al microscopio“, che Donatello Tateo ha letto e discusso per noi attraverso la recensione che segue; lo stesso, inoltre, nel settembre dello scorso anno, in occasione di un suo seminario, ha avuto modo di intervistarlo brevemente su punti fondamentali della ricerca musicologica, sulle quali le risposte di Piras rivestono un personale ed scoppiettante contenuto ideologico.
Ettore Garzia

Dentro Le note. Il jazz al microscopio, Marcello Piras, Arcana Ed.

di Donatello Tateo

La teoria delle forme complesse del jazz è una conquista dell’Autore e della scuola di musicologia che egli continua a rifornire. Attualmente è un punto cardinale, uno statuto di indirizzo e polarizzazione in tutto il pianeta per gli studi delle musiche di matrice afro-americana per i quali l’Autore ne è arcigno difensore, dell’autonomia e indipendenza della didattica di questa disciplina. Una creatura che, sin dai tempi della sua precocissima inaugurazione (come emerge spesso dal pensiero dell’Autore), è stata riconosciuta tanto a colpi di imponente ricerca vertebrata da rigorose dimostrazioni quanto di scintillanti intuizioni, in condizioni che variano tra l’ostracismo e l’approssimazione, stabilite da posizioni istituzionali di supremazia, quest’ultima invece mai dimostrata bensì imperativa …
Una teoria che fuori dalle sedi deputate alla formazione ha ricevuto una sistematizzazione nel 2007 a cura di Stefano Zenni nel IX capitolo di “I segreti del jazz. Una guida all’ascolto”, (Stampa alternativa/Nuovi equilibri), di cui ne è la più corposa porzione, e una prima apparizione nel saggio dello stesso Autore in “Il jazz fra passato e futuro” (a cura di Maurizio Franco , LIM, 2001).
Nella calorosa introduzione l’Autore fornisce ampiamente tutte le ragioni per confermare l’attualità di questa selezione di articoli di analisi, considerata la distanza storica (20-30 anni) dalla loro produzione, rivolgendo la lettura del testo certamente a chi è già dotato di strumenti presupposti alla sua comprensione, principalmente ai giovani musicisti. Insomma a tutti coloro che in un’ideale urbanizzazione di una “Jazz City” vi abitano downtown e da questo centro vitale possono godere maggiormente della ampiezza d’arco della visione e della ricerca totale dell’Autore.
Ciò non esclude però che il testo possa essere fruito dalla disordinata periferia popolata da chi quella dotazione non ce l’ha, un confuso e inquieto reticolo di “appassionati”, sedicenti e non. Forse perché vittime più vulnerabili dell’inquinamento mediatico che ha deviato verso miti, superstizioni, eroismi e illusionismi la prospettiva globale e la natura cangiante di quel “codice mobile” qual è il jazz, o forse perché, pur avendolo amato da sempre e comunque sforzandosi di penetrarne un po’ il nucleo musicale, si ritrovano dopo 30 anni più sordi e profani che mai, oggi, riconosciuti l’inganno e tanta evanescenza di sforzo, implorano che qualcuno gli insegni una “lingua” per comunicare.
A coloro che si possano riconoscere in questa impressionabile e sgangherata cittadinanza qui basterebbe proporre anche solo un singolo motivo non specialistico per approcciare questo testo: il piacere del processo di pensiero e di indagine dell’Autore, parallelo o in linea discendente alla vastità culturale che lo sostiene, evoluto in una superiore sintesi dei multipli livelli operativo – descrittivo – significativo che l’Autore stesso indica nell’introduzione, riferendosi lì invece in termini di progressione temporale del carattere degli articoli di “Dentro le note”. Proprio quest’ampiezza di respiro è d’altronde ciò che libera al fruitore innumerevoli possibilità di migrare fra questi articoli (anche non rispettando l’impostazione cronologica secondo la data di pubblicazione né quella secondo lo sviluppo lineare storico del jazz, quest’ultimo spesso fuorviante), e per una loro proprietà anisotropa consentono l’accesso a differenti ma sempre sostanziali sentieri di ascolto/lettura.
Nell’imbarazzo della scelta in questa moltitudine qui si suggerisce di seguire una possibile direzione di orientamento, a partire dall’articolo su “Child of a disordered brain” di Earl Hines (n°25, pag. 131), passando per l’analisi di “Composition 23C” di Anthony Braxton ( n°27, pag. 142), “You’ve got to be modernistic” di James P.Johnson (n°8, pag.48),“Africa” di John Coltrane (n° 28, pag.145), “Fables of Faubus” di Charles Mingus (n°7, pag. 38) e quant’altro: è un percorso in cui particolarmente l’Autore rivela, con l’esattezza della verifica analitica, la complessità e profondità del pensiero artistico afro-americano, mascherato, “cifrato” per sopravvivere all’interno di un ambiente graniticamente ostile ma eroso da striscianti dimostrazioni fattuali di superiorità creativa, apporto vitale alla storia non scritta della musica, dell’arte, dell’umanità. E’ un percorso concentrico rispetto a quello che si ritiene il nucleo della ricerca dell’Autore della quale si attende ora il consolidamento in un’opera, se non propriamente definitiva, certamente sovversiva.
Si potrebbe anche seguire il filone degli articoli che tesero a ridimensionare sin dai primi contagi uno dei più devianti equivoci che il termine “free” ha diffuso (“Lori’s song” di Joseph Jarman, “Brax stone” di Leroy Jenkins, ancora “Composition 23C” di Anthony Braxton, “Nightfal Pieces II” di Bill Dixon, “Peace” di Ornette Coleman …). Oppure si potrebbe menzionare singolarmente il bellissimo articolo su “Fugato” di John Lewis (n°32, pag.173) con il suo coup de théâtre finale; ma ciò sarebbe ancora colpevolmente riduttivo rispetto alla complessiva ricchezza che il testo offre.
L’Autore conclude così la sua introduzione : “…. queste vecchie carte possono tuttora servire, se non altro a riequilibrare una visione del jazz ossessionata dal solismo, che è la prima colpevole della noia mortifera di tanta produzione odierna. Ci si fissa sui dettagli e si perde di vista l’architettura. Qui, invece, l’architettura domina sovrana. E con essa, il senso”. Nel corso della lettura di “Dentro le note” per una curiosa interpolazione, è capitata fra le mani un’altra vecchia carta, un servizio apparso sul numero 21/1997 di “Cahier d’Art” che conteneva estratti dal libro “Leggere, scrivere, parlare architettura”, concessi alla rivista in anteprima esclusiva dal suo Autore: Bruno Zevi. Lì è espressa l’insofferenza per un certo impasse accademico e per i “giudizi senza criteri della critica (al duplice livello professionale e didattico)”, delle insidie del relativismo del gusto, di classicismo retrogrado e delle “implicazioni del parlare in chiave anticlassicistica il linguaggio non verbale dell’architettura”, di alibi colpevoli di arrestare lo sviluppo o di ulteriori dilazioni della ”urgenza di capire, ascoltare, aggredire l’architettura, ma soprattutto progettarla”, di determinarla con chiarezza “anche con l’indagine semiologica”. E ancora più avanti si parla di “una sfida, traumatica e gigantesca ma solo perché inesplorata, da affrontare per produttori e utenti, con l’ambizione di ogni atto eretico che, solo se può suscitare dissenso/dissonanza, raggiunge lo scopo di parlare architettura anziché parlare sino al tedio di architettura”.
Una curiosa interpolazione forse rivelatrice, per le titolari conquiste di orizzonti da ambiti differenti, di un’ideale fratellanza fra queste illustri personalità.

Intervista a Marcello Piras fatta a Monopoli il 6 settembre 2014 

di Donatello Tateo
(foto tratta da cocoprojazz.com)
La presenza di Marcello Piras al Conservatorio Nino Rota di Monopoli dal 4 al 6 settembre 2014, dove ha curato un importante seminario su “ La prassi esecutiva nelle musiche afroamericane: il ragtime“, con la collaborazione dei docenti Domenico Di Leo e Teresa Satalino, è stata una occasione per avvicinarsi all’ampiezza, ricchezza e, per certi versi, sovversività delle sue ricerche sulle musiche afro-americane, qualità che gli conferiscono la riconosciuta statura di autorità mondiale in campo musicologico.
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DT: Da più di un decennio si sta occupando della catagolazione sonografica delle opere del pianista Umberto Cesàri, una personalità artistica (e non solo) misteriosa, irregolare ma assolutamente unica e sorprendente nella storia del jazz. A che punto è il lavoro di recupero dei numerosissimi nastri privati ? E riscontra una maggiore diffusione della conoscenza di Cesàri oltre l’ambito specialistico?
MP: l lavoro sui nastri di Umberto Cesàri in questo momento è fermo. Si era pensato a una loro possibile collocazione, che però si è poi visto non essere ideale, per cui se ne sta considerando un’altra; e questo viene prima di qualsiasi altra considerazione, per ragioni di incolumità dei supporti e altro. Per quello che riguarda la conoscenza del musicista e della sua opera, c’è stata una fiammata quando è stato pubblicato il libro (“Il pianista invisibile. Vita e opere di Umberto Cesàri (1920-1992)” a cura di S. Zenni, SIdMA, CariChieti – 2001) cui sono seguite alcune attività, ma la cosa è più o meno finita lì. Adesso bisognerebbe alimentarla perché il problema è che, in questo momento, chi cercasse cose si Cesàri non le trova.
DT: Lei è co-autore di “The Cambridge Companion to Duke Ellington” (Cambridge University Press), che sarà pubblicato nel gennaio 2015, per il quale lei ha contribuito trattando un insolito aspetto critico dell’opera di Ellington, precisamente quello del descrittivismo in musica. Ci può fornire informazioni sull’importanza di questa edizione e dell’apporto degli altri autori ?
MP: Sarà un libro di straordinaria importanza e molto ricco perché vi hanno collaborato diverse autorità ellingtoniane. Per quel che riguarda la conoscenza dell’uomo Ellington, c’è uno scritto di suo nipote, mentre per l’aspetto musicologico vi sono molte idee nuove. In realtà libri su Ellington ne escono spesso negli Stati Uniti: non tutti sono di buon valore perché Ellington è un argomento più difficile di quanto non sembri a prima vista.
DT: Fra le prestigiose cariche che ha ricoperto, nel 2001-2002 lei è stato direttore esecutivo della collana MUSA (Music of the United States of America, presso l’ Università del Michigan in Ann Arbor) che pubblica edizioni critiche non solo sul jazz ma su tutta la varietà degli idiomi musicali americani. Cosa ci può riferire di quella esperienza in quella sede e quanto ha inciso nel suo percorso professionale ?
MP: Quell’esperienza mi ha catapultato nella cabina di regia della musicologia americana. MUSA esiste tuttora e mantiene una continuità nella produzione di edizioni critiche di assoluta autorevolezza; vi sono lavori iniziati da miei predecessori e da me completati, e lavori da me iniziati e completati da miei successori. Per me ha significato lavorare con persone di cui io ho la massima stima, a un livello professionale inaccessibile in questo settore in Italia, dove si fanno valide edizioni critiche ma in altri settori, per esempio la musica barocca. L’Università del Michigan è un’istituzione internazionale, ha talenti di tutto il mondo. Lavorarvi ha significato anche essere al centro di correnti e tendenze, scoperte e ricerche, tutte sostanziali, specie considerando che ho avuto questa esperienza poco dopo essere uscito dall’Italia, quando cercavo di lasciarmi alle spalle il suo ambiente asfittico.
DT: Lei è stato anche membro dell’ International Advisory Board del Center for Black Music Research di Chicago. In quella autorevole sede verso quali frontiere ritiene si stiano spingendo le più coraggiose ricerche di musicologia afro-americana ?
MP: È un argomento che ha tanti rami: quelli più accademici, che trattano dei compositori classici neri, procedono più rapidamente e hanno più sostegno. Anche se c’è una vocazione del Center a occuparsi di compositori di tutto il mondo, quelli di lingua inglese hanno prevalenza, anche perché le fonti degli altri sono altrove. Per me è stato importante lavorare lì perché mi ha incoraggiato a ricercare cose che altrimenti in Italia non avrei ricercato. Difficilmente mi sarei occupato di Vicente Lusitano, compositore di colore del ‘500, senza l’impulso ricevuto da quella sede. Siccome poi Lusitano è stato attivo a Roma, dopo aver lasciato il Center, mi è accaduto di occuparmene maggiormente… tornando a casa. Per quello che riguarda il jazz, il Center è un po’ meno attivo, a causa di due problemi: la relativa incomunicabilità fra coloro che si occupano di musica accademica e gli altri, e fra coloro che seguono il mondo di lingua inglese e gli altri: ostacoli che peraltro, ne sono convinto, saranno col tempo superati.
DT: Lei alimenta la sua ricerca musicologica con i contributi di altri ambiti scientifici : paleontologia, archeologia, linguistica comparata, evoluzionismo, filogenesi del cervello umano. Oltre a queste discipline di quali ulteriori contributi di altre aree scientifiche lei sente attualmente la necessità per fecondare la musicologia ?
MP: Per quel che riguarda le neuroscienze, oggi il problema è che si sta costruendo e perfezionando una mappa delle funzioni cerebrali che le descrive come parti del motore di una automobile. Da questo approccio risultano libri che intendono “spiegare” come il cervello decodifichi la musica, ma usando un linguaggio che comunica solo a chi è già addetto ai lavori. Io invece ritengo centrale e veramente rivelatore sapere in che modo le diverse culture differiscono nell’usare aree del cervello più o meno arcaiche o più o meno recenti. Detto questo, gli apporti di altre discipline possono essere infiniti. La paleografia ha avuto rapporti con la storia della musica, l’archeologia invece ne ha avuti pochi: i reperti di oggetti litici in un sito di Neanderthal non sono stati considerati attinenti. Dal recente ritrovamento dell’osso chiamato “flauto di Neanderthal” — peraltro è dubbio se si tratti di uno strumento musicale o no — si è cominciato a capire che la musica non fossilizza ma gli strumenti rimangono. Gli strumenti non sono tutta la musica, ma ne sono una parte significativa. Gli strumenti moderni sono cromatici, per cui un pezzo per flauto può essere suonato anche con l’arpa. Ma anticamente non era così: gli strumenti avevano risorse molto più ristrette, e sapere con quale strumento si facesse musica significa sapere anche quali scale si usassero, etc. quindi il valore informativo è molto maggiore. Lo sviluppo dell’iconografia musicale inoltre ha fatto emergere collegamenti evidenti tra gli strumenti di cui abbiamo tracce storiche (vaso greco, pittura rupestre, tombe egizie) e le prassi musicali preservate per lo meno fino all’epoca in cui sono state documentate in disco o video. Questo ha dato una dimensione storica a molte cose che non l’avevano. Negli ultimi anni, poi, il più grande passo avanti nella storia della musica è stato fatto grazie alla biologia molecolare, la quale ha mostrato che non c’è bisogno di scrivere la storia perché sia documentata : è sufficiente che le persone vivano. Esse portano dentro di sé, nel proprio DNA, informazioni che basta estrarre e saper leggere. Ciò ci consente di capire che c’è stato un flusso migratorio da una zona a un’altra, in un dato momento del passato, e questo può essere messo in correlazione, per esempio, con la diffusione di un oggetto, per esempio uno strumento musicale, o con una certa danza. Si è fatto con le lingue e non vedo perché non si debba fare con tutto il resto. Quando si comincia a disporre di più prove di correlazione storica nella stessa direzione, provenienti da diverse aree di ricerca, ciò non si può più ignorare. Questo significa chesi può e si deve fare la storia della musica orale, e non solo della musica scritta: il che cambia tutto.
DT: La diffusione planetaria e accelerata del jazz e in generale delle musiche afro-americane nel ’900, sicuramente determinata da fattori economici e tecnologici, è, secondo lei, anche lo sbocco di un lungo processo carsico di emancipazione e costruzione morale, civile e spirituale dell’umanità, in termini di tolleranza, cooperazione, naturalezza, o addirittura se è stato un progressivo recupero o disvelamento di una sapienza “esoterica” tramandatasi simbolicamente ?
MP: E’stata un po’ una cosa, un po’ l’altra e un po’ altre cose ancora. Nel secolo scorso la tecnologia ha consentito di diffondere tutto ma poi non tutto si è diffuso. Perché le musiche di radice africana si sono diffuse più di quelle di radice, ad esempio, cinese? La mia spiegazione sta nel fatto che in Africa vi è qualcosa che è fondante per la musicalità umana, mentre la Cina è una civiltà specializzata; si può diffonderla quanto si vuole, ma non si otterrebbe lo stesso effetto dell’esperienza musicale africana nella storia umana, ed è questo che ci interessa. L’Africa è una freccia che punta verso un fondo comune, alla base di tutto, con cui dobbiamo fare i conti. Questo ci sta portando a capire meglio noi stessi, il che, con una musica di un’area particolare, non sarebbe accaduto e infatti non è accaduto. Ormai abbiamo colonizzato tutto il pianeta, raggiunto ogni area abitabile e non possiamo subito andare a vivere su altri corpi celesti; quindi, bloccati qui, possiamo solo interrogarci per capire come siamo arrivati a essere quello che siamo. La musica ci può fornire le risposte più vitali e importanti, perciò ci aiuta più di altre cose; è di immensa importanza per l’umanità avere pratiche musicali e coreutiche che possano implicare o meno una condivisione di socialità, che rendano più o meno probabile la possibilità di odiarsi, e tutto questo ha una conseguenza politica, anche se forse insufficiente. Alcune singole personalità hanno fornito maggiore impulso a tale processo: pensiamo a Ellington o Coltrane… Coltrane volle vedere la fede religiosa come momento di inclusività. Ciò è decisivo in questo momento storico. Le sorti del mondo dipendono dalla nostra capacità di essere inclusivi.