Denis Beuret’s quartet: Improvising in the consulting room

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foto denisbeuret.ch
Nell’ambito improvvisativo molti musicisti hanno avuto il coraggio di guardare a nuove modificazioni musicali, affascinati dai concetti delle “impossibilità”: Denis Beuret è un trombonista svizzero che ha fatto tesoro dell’insegnamento fornito dalle discipline contemporanee, riversando nella cornice dell’improvvisazione quelle forme musicali che sono il risultato di un esperimento durissimo per l’esecutore. E’ ciò che normalmente viene compreso come “fallimento” delle capacità, musicalità che vengono fuori in maniera anomala, imprevedibile, ma che formano un tessuto espressivo inesplorato. Nel progetto Duo Inoui, Beuret ha seguito l’apoteosi teatralizzata di Cardiophonie del compositore Holliger, in cui le pulsazioni del cuore sono in grado (tramite magnetofoni o software adeguato) di distruggere la relazione di scambio con il musicista, poiché all’aumentare dello sforzo profuso sulla partitura, le accelerazioni del cuore si ripercuotono interamente sull’esecutore portandolo idealmente alla scomparsa (esorcizzata in scena); così come nel progetto in solo di Suite Inoui (accerchiato da un computer con sistema Max/Msp e una pedaliera Midi), Beuret ha trasfuso molte delle idee pionieristiche del compositore e trombonista Vinko Globokar, impossessandosi del suo stile unico, in grado di creare una vera compenetrazione fisica tra il musicista e lo strumento, in cui le tecniche estese (soprattutto inserimento di oggetti sul trombone o uso di sordine) sono un tutt’uno con le indicazioni di dialogo fornite dall’elettronica di sostegno.
Beuret attuò un tentativo di sintesi con Alone, un cd per la Leo pubblicato nel 2008, che si presenta come un vero e proprio laboratorio di esplorazione del suono del trombone ed, in particolare, quello basso: usando varie differenziazioni di imboccatura e cercando interazione buona con i loops, Beuret dimostrò quanto lontano si potesse andare in un settore vergine per le investigazioni; in linea generale Denis è un prigioniero della novità e dell’eclettismo, perché negli ultimi tempi si è dedicato anche ad un progetto audiovisivo sulle balene (qualcosa che stende la ricerca di suoni al trombone nelle proiezioni scientifiche), mostrando interesse per l’approfondimento di quelle innovazioni che partite dal field recordings (il piazzamento di microfoni in acqua per ricavare configurazioni sonore immacolate) oggi stanno stabilendo una sconosciuta grammatica musicale dell’immersione (si va dalle pratiche di rilassamento sino alla creazione di strumenti e canto per l’ambientazione acquatica), sebbene il tutto sia svolto ancora in un assoluto riserbo. Non è certamente solo spettacolarità quella che Beuret vuol fornire e naturalmente non disdegna di trovare risultati originali nelle pieghe di una delle sue fonti formative: il jazz. A questo scopo ha imbastito un quartetto con ottimi improvvisatori, invitando Dominik Burger alla batteria, Jerry Rojas alle chitarre (quasi sempre elettrica) e Ekkehard Sassenhausen ai fiati (quasi sempre al sax alto), ad un progetto quantitativo democratico che ha il nome di BBRS (abbreviazione dei singoli cognomi).
“Improvising in the consulting room” è un set alternativo degli idiomi del trombonista svizzero che porta dentro il gusto della ricerca mirata dei suoni ma è il risultato di una confluenza stilistica decisa a priori: se cercate le speciali evoluzioni del trombone basso di Beuret non è forse questo il posto giusto, ma l’improvvisazione è di tutto rispetto ed è anche piuttosto gradevole all’ascolto. Il progetto del BBRS si fonda sulla costruzione di trame in cui la chitarra riveste spesso un ruolo fondamentale: Rojas e Burger si adoperano per produrre elasticità e reattività al suono generale mettendosi di contro alle prestazioni sconnesse e “balbuzienti” di Beuret e Sassenhausen. Questo fa sì che si possa scorgere mistero e sostanza materica in S.C.T.S., oppure ricercare situazioni espressive in tutte le Consulting, lavorando sulle capacità di raccordo dei partecipanti: è come se J.J. Johnson fosse stato costretto a suonare da un pool di improvvisatori liberi del Duemila. Rojas ha una verve che lo inquadra in quei chitarristi in cerca di effetti e profusioni appartenenti all’ampia letteratura della chitarra elettrica ed acustica (non è casuale la copertura di una Follow your heart di John McLaughlin) e mentre Burger fa tappeti sonori, Sassenhausen gioca sulle profondità e sulle frammentazioni del suo sassofono. E’ un’intesa che prelude ad atmosfere più gradevoli di quanto ci si possa pensare (sentire come avanza lo scontro tra la ricerca della situazione ambientale e l’improvvisazione tout court nella Consulting 7) e fotografa un jazz dinamico ed avanzato che consente una piena intelligibilità della proposta musicale, divisa tra velleità singolari ed espressione composita di gruppo. Sebbene manchino forse gli acuti strumentali, questi “consigli” musicali riportano all’attenzione una certa filosofia del jazz, in cui c’è apprensione per i possibili sbilanciamenti di prospettiva geografica ed attenzione per la jam: nel Consulting finale (n. 10) un flauto sembra voler tirar fuori un serpente da un cesto ma è solo il pretesto per dar luogo ad una sessione improvvisativa arricchita da alcuni schemi ritmici modulari stabiliti via facendo.