Ivo Perelman tra live e nuove collaborazioni: l’ultima sestina per Leo R.

0
479
Ivo Perelman non cambia scenario per le sue registrazioni, abituandoci, da un pò di tempo a questa parte, ad un uso quasi megalomane della pubblicazione di musica, con 5, 6 ed oltre cds, variamente configurati in tema. Appena pubblicati per Leo R. (una destinazione discografica che non ammette ritorno per il sassofonista brasiliano), c’è una nuova sestina di lavoro assieme a Matthew Shipp (ormai il suo pianista di riferimento), che stavolta lo ritraggono in alcune esibizioni dal vivo e in una serie titolata nel campo delle figure geometriche.
Vorrei precisare che aldilà degli esperti che seguono capillarmente il lavoro di Perelman da molto tempo negli Stati Uniti (Neil Tesser è uno di quelli), in Europa e soprattutto in Italia l’unico che mi ha preceduto nella conoscenza profonda dell’artista è stato un isolato Vittorio Lo Conte, come confermato da Perelman nelle nostre missive. Posso ben dire che è stato grazie a me e a Percorsi Musicali, che è stata ridata la giusta luce all’artista, a cui ho dedicato un dettaglio unico della sua lunghissima discografia, molto prima della rivalutazione “indotta” che alcune riviste blasonate di jazz gli hanno dedicato solo recentemente. Di questo penso che Ivo me ne sia grato, lui che ha anche vissuto per un periodo di tempo a Roma.
Ora, di seguito, dò un commento cd per cd, partendo dai live.
Live in Brussels documenta una delle esibizioni fatte nel tour in Europa: è quanto di più completo e riassuntivo si possa ascoltare per comprendere la musica dei due musicisti: formato doppio, in questi cds Shipp suona senza centro di convergenza, con le scale simula un saliscendi concreto e vi porta in posti oscuri, qualche volta magari in odore di minaccia o avvertimento; dal canto suo Perelman è in perfetta catalessi lirica, soffiato e vibrato portato a massimo esponente, è il prototipo ideale dell’avventura sonora. In part 2 c’è molta complicità nei temi, una narrazione quasi aggressiva, dove a quasi metà del brano, Perelman caccia degli acuti incredibili, il suo tipico ed unico urlo straziato che viene mirabilmente accompagnato dai clusters di Shipp; è una resa drammatica che non deve però far pensare ad uno scenario di disfatta, ma più ad un caos e ad una concezione espressionistica. Non ho ancora avuto la fortuna di incontrali, ma Shipp e Perelman parlano già meravigliosamente coi loro strumenti. L’attenuazione delle tinte avviene nel finale, dove la tensione viene convogliata in un pattern di sonorità speciali, dove Shipp va veloce su una scala impostata al seriale e Perelman frammenta. Nel secondo disco il set non si discosta dall’offrire plurimi paesaggi musicali che sfondano alcune porte del passato, sono esercizi neurali poderosamente guidati da Shipp, che a circa metà del percorso, lascia Perelman solo come un jazzista al club, ad impegnarsi con un sax quasi idiomatico, che porta fuori la sua personalità, svisando sulle ottave. Naturalmente, fortunati gli avventori di quella serata.
Il Live in Baltimore è invece un concerto che Shipp e Perelman hanno eseguito con il batterista Jeff Cosgrove. Il tenore generale dell’esibizione mostra un incontro ispirato, con tanti dettagli, completamente atonale ma con Cosgrove che fa un figurone, perché solo un batterista con certe capacità può essere in grado di tessere una tela ritmica (seppur senza nessuna necessità di collisione con gli altri due musicisti) adeguata a questo turbine di espressione che si presenta. Un concerto per pochi, 75 poltrone rosse e 75 ascoltatori trascinati dalla musica in sensazioni che fuoriescono dalla razionalità del collocare armonie, melodie o dinamiche ritmiche.
Si ritorna in studio. Subentrano le figure geometriche. Di solito esse sono emblemi di costruzioni che nell’arte hanno avuto anche significati misteriosi, mutuati dalla scienza e dalla matematica. Ma non è questo il caso, sebbene il quartetto che affida la sezione ritmica a William Parker e Bobby Kapp, abbia un alone di mistero. Heptagon mantiene le caratteristiche delle espansioni creative di Perelman e Shipp, subordinandole però ad una struttura più tendente all’interplay di matrice jazzistica. Contesto più equilibrato ma non meno interessante. E’ il Perelman più old-style che qui si trova, un termine che naviga leggermente dalle parti dell’eufemismo del termine, poiché le pennellate free e la dilaniante potenza sonora di Perelman sono elementi che proprio non mancano; Heptagon è amabilissimo nei suoi svolgimenti, con una perfomance dove Kapp dimostra di avere ancora uno smalto ed un feeling non sedati con l’età e Parker imbusta a meraviglia l’ambientazione musicale di fondo.
Scalene è l’associazione geometrica triangolare che Perelman utilizza per il trio con Shipp e il batterista Joe Hertenstein, il terzo batterista della serie dopo Cosgrove e Kapp. Hertenstein si dimostra più istintivo e l’impressione è che non sia integrato di fronte a due treni di creatività così speciali come Shipp e Perelman; la verità è che il batterista tedesco segue rotte complesse, in ossequio alla versatilità roboante che da qualche tempo i percussionisti dell’improvvisazione stanno ritornando ad offrire nei segmenti aggregativi; sentendo part 5 o part 7 non si può fare a meno di pensare ad un drummer che punta su intelaiature potenti, che rivelano un background che può tenere assieme anche la ritmica rock e non solo free jazz. Perelman ha voluto sperimentare questo tipo di soluzione per la sua musica, ed ognuno può valutare ciascuno per proprio conto se questo è un bene nel contesto complessivo della sua espressione.
Octagon è il quartetto, senza Shipp, ma con il contrabbassista Brandon Lopez, Gerald Cleaver alla batteria (quarto batterista) e per la prima volta il grande Nate Wooley alla tromba. Octagon si presenta più introspettivo, muscoloso, deve superare ostacoli, ed in tal senso è proficuo e valido il lavoro fatto da Lopez e Cleaver, che presenta una ritmica più creativa e frammentata; Wooley entra in Part 2 con note sostenute e gracchianti, frutto di estensioni, mentre Perelman entra quasi in un gioco simulatorio con il trombettista. L’incontro con questi musicisti è certamente una nuova esplorazione di intenti per Perelman. Di fronte ad un professionista eccelso dell’improvvisazione atmosferica che oggi rappresenta una delle più sincere e valide evoluzioni del genere, Perelman cerca di adeguarsi, di spogliare la fitta ed usuale interposizione del suo sax a favore di un raccordo con una struttura labirintica. E per fare ciò deve sciogliere il lirismo o la verve espressionista a favore di una più consistente lavorazione sulle tecniche estensive, come succede nella girandola di soluzioni di part 4 o 5, che impongono di tirare gli strumenti fino a perder fiato.
Improvvisazione con tanto di marchio dei musicisti e strappi di gran livello, che vengono perseguiti anche in Philosopher’s stone, trio con Shipp e Nate Wooley, dove il trombettista si inserisce a perfezione nel contesto consolidato del duo piano-sax. Qui è Shipp che fa propulsione, quel lavoro che in Octagon era riservato alla ritmica, aprendo ed aggiornando il climax dell’improvvisazione. La mia opinione è che però sia sempre Perelman a distribuire le idee, ad adeguarsi e a provocare il tenore di certe improvvisazioni, che in alcuni casi restano splendide, così come succede nella sezione centrale di Part 6, che sembra soccorrere narrazioni oscure, con Perelman e Wooley che si rincorrono sui sovracuti tanto da renderli sonoramente irriconoscibili per il loro strumento.